«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VIII - n° 1 - 15 Maggio 1999

 

Stilisti o giullari della politica europea?

 

 

 

Noi italiani, come nessun altro popolo, ci divertiamo a parlar male di noi stessi e riecheggiamo, spesso gonfiandoli, i giudizi negativi che ci piovono addosso dall'estero. Una volta tanto, un importante quotidiano europeo ha espresso su di noi un giudizio positivo. Giudizio che senza dubbio contiene una parte di verità e che potrebbe essere molto lusinghiero se non implicasse altre amare considerazioni. «Gli italiani sono gli artisti senza uguali della formula politica in Europa, nel bene e nel male». Scrive Aléxandre Adler su "Le Monde": «Come grandi stilisti, lanciano nuove linee che diventano poi il "prét à porter" della politica europea. Nel 1912, hanno inventato la via parlamentare al riformismo socialista. La parola "trasformismo" è di Gaetano Salvemini, che lo condannava senza appello; la sua attuazione pratica è del presidente del consiglio liberale Antonio Giolitti, che vi fece ricorso senza rimorsi. Poi inventarono il fascismo, dieci anni prima di Hitler, ma anche l'antifascismo di Gramsci e dell'Aventino, dieci anni prima dei fronti popolari, la democrazia cristiana, cinque anni prima. di Adénatier, l'apertura al centro-sinistra da parte del neocapitalismo europeo, alla fine degli Anni Cinquanta, il comunismo riformato, emancipato da Mosca, tra il 1964 e il 1968 (significativamente battezzato da Berlinguer "eurocomunismo" prima che tale diventasse, N.d.R.) È ancora l'Italia l'iniziatrice di quella combinazione esplosiva di giudici giustizieri e governatori di Banche centrali che secondo qualche testa calda dovrebbe prendere il posto degli uomini politici tradizionali, giudicati in blocco inetti e corrotti. Infine, la vittoria dell'Olivo, conseguita dal Delors italiano Romano Prodi all'inizio del '96, ha annunciato con oltre un anno di anticipo il successo del pragmatismo di Tony Blair e del "redressement" morale di Lionel Jospin. Quale segnale l'"alma mater Italia" ci lancia con il governo D'Alema? Forse ci prepara ancora una novità, presentandoci un modello sperimentale di grande coalizione, nel quale le due forze, social-democratica e conservatrice cristiana, si accordano equilibrandosi reciprocamente su un programma comune incentrato sul progetto europeo?»

Questi casi di antiveggenza italiana, colti come perle nello strame, destano nell'osservatore straniero una sorpresa, mista di ammirazione e irritazione, nella quale c'è il poco impegnativo riconoscimento della genialità naturale di un popolo «artista», capace di perpetuare le intuizioni di cui fu ricco il nostro Rinascimento, e la diffidenza per la debolezza del nostro Stato e per il suo scarso radicamento nella nazione. Poiché la tendenza ad indebolire lo Stato è generale, in Europa e nel mondo, siamo in anticipo sugli altri popoli perché disponibili più degli altri ad ogni diminuzione del suo potere. Se le nazioni europee sono tutte più o meno impermeabili all'idea di Europa, alla cui costruzione partecipano con un sostanziale opportunismo e con riserva di una propria esclusività etnica, l'Europa che pur si sta costruendo riflette, alla lontana, le idee di impero, di universalità, di diritto naturale che costituiscono l'aspirazione profonda e la caratteristica unica della nazionalità italiana, la quale si è formata entro e in subordine alla ecumene romana e all'universalismo cattolico, solo tardi, per imitazione e quasi costrettavi, adottando l'esclusività etnica costitutiva delle altre nazioni europee. Tutti in Europa hanno assistito, prima increduli poi ammirati, ai sacrifici economico-sociali sostenuti dagli italiani per entrare nell'Euro, sacrifici che precedentemente non avevano affrontato per il bene dell'Italia. Talmente sanguinosi che ora rischiano di tradursi in un rallentamento dello sviluppo italiano.

Di questa nostra «inettitudine precorritrice» gli esempi abbondano. Abbiamo avuto il crollo dell' 8 settembre '43 un trentennio prima che la crisi del Viet Nam mostrasse i limiti dell'egemonia strategica americana: bombe dal cielo all'infinito, guerra sul terreno mai più. Così, in un campo apparentemente molto diverso, ma ugualmente sensibile per l'«immaginario collettivo», siamo usciti dall'elettronucleare, con largo anticipo su altri Paesi che da decenni vi si sono seriamente impegnati e che tuttavia ora sempre più sono tentati dall'ecologismo. Nonostante che solo lo sviluppo dell'elettronucleare abbia reso possibile spezzare l'egemonia del petrolio, e che in questo settore di ricerca e industriale, fra una cinquantina d'anni, esaurite le riserve di idrocarburi, dovremo inevitabilmente rientrare, e dovremo farlo con tecnologie evolute, non improvvisabili, paesi come la Germania, forse anche la Francia, inclinano a ripetere il nostro errore, con l'aggravante di disperdere preziose esperienze. Abbiamo offerto una breve ospitalità ad Ocalan con la velleità di farci paladini dell'indipendenza del popolo curdo, impresa di proporzioni e complessità tali da far arretrare l'ONU, la Comunità europea e singole potenze maggiori di noi. Cioè accenniamo ai primi passi di una politica universale che non abbiamo i mezzi per realizzare, ma della quale due terzi dell'umanità avrebbero disperato bisogno. Allo stato delle cose la nostra leggerezza non può che generare irritazione negli altri paesi. Eppure qualche voce qua e là approva e sembra riconoscerci il merito di qualche spiraglio aperto sul futuro. La controprova della tipicità italiana di questo difetto-qualità la si ha nei gesti universalistici o umanitari, nella cosiddetta «mondializzazione della giustizia», nuova moda nella quale, a differenza di noi, altri paesi mal nascondono precisi interessi egoistici, quando non vetero-imperialistici. Il giudice spagnolo Garzon sembra clonato da certi giudici italiani. Eppure, se a incriminare Pinochet in Cile e Galtieri in Argentina, come non scorgervi una «corretta» strumentalizzazione dell'influsso spagnolo in America Latina? Se incombe al palladio della tradizione britannica il compito di dare una storica e forse definitiva smentita alla giustizia britannica e al britannico «fair play», come non scorgere da parte dei vecchi Lords una miserabile ricerca di popolarità contro la minaccia della riforma democratica? Se la frazione trotzkista che fa parte della maggioranza di Blair sembra decisa a riaccendere la miccia della guerra civile in Spagna, come non vedervi un tentativo di rivincita di quel che resta delle brigate internazionali? Se gli USA lasciano da parte la propria ossessione anti-terroristica per associarsi alla commemorazione dei «desaparecidos», forse che non lo fanno solo dopo che i regimi militari hanno definitivamente sottratto l'America Latina al comunismo? Tutto questo non è giustizia mondializzata, è soltanto uno scoppio ritardato del principio metagiuridico di Norimberga, la giustizia del vincitore imposta al vinto.

I nuovi assiomi della comunicazione, tutti da dimostrare, sono che il grado di verità dell'informazione progredisca e così la qualità del conseguente giudizio morale, che sia possibile stabilire a posteriori le decisioni che sarebbero state giuste a prescindere dalla vicenda storica, che il giudizio sul governante come individuo sia separabile dal giudizio sul comportamento collettivo, in definitiva che sia fatale e prossimo l'avvento di una giustizia al di sopra di tutte le frontiere e non soltanto di alcune. In realtà, la pretesa giustizia globale annunciata dai movimenti d'opinione e dai mezzi di comunicazione è priva di ogni base giuridica, perché politicamente irresponsabile. Nemmeno l'ONU potrebbe senza esplodere arrogarsi il necessario potere di intrusione nella politica interna degli Stati aderenti. Lo dimostrano più chiaramente che mai le vicende del Kosovo, dove ancora una volta le ambiguità italiane potrebbero risolversi in una maggiore saggezza. Solo una piccola parte dei miliardi di dollari che si stanno spendendo in bombe e missili sarebbe bastata a pagare cento missioni «Arcobaleno». Nelle corti medioevali era molto apprezzato il giullare che poteva dire quel che i cortigiani pensavano, lanciare insulti e fare profezie, protetto dalla propria irresponsabilità. È quel che succede all'Italia da quando la cooperazione europea si è fatta più impegnativa e la linea politica dell'Italia meno solidale e meno prevedibile. In vista di una recente riunione del Consiglio europeo a Vienna, francesi e tedeschi si sono incontrati a Potsdam per programmare una «riflessione a tre» assieme agli inglesi, su temi di importanza vitale, quali l'Europa sociale, la riforma del sistema finanziario, la politica comune di difesa. Il direttorio anglo-franco-tedesco crea così, ancora una volta, il fatto compiuto, al quale l'Italia e gli altri dovranno adeguarsi.

Allora, siamo stilisti o giullari?

 

Cesare Pettinato

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