«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VIII - n° 2 - 31 Luglio 1999

 

Noi apocalittici, ovvero note brevi contro le masse scatologiche

 

 

 

Osservando i rari spettatori ad una manifestazione artistica difficile, Mallarmè commenta che quel pubblico testimoniava, nella sua esiguità numerica, l'assenza della massa.

È, se posso dirlo, il caso nostro. L'analogia non si limita ad un dato meramente quantitativo: quand'anche qui riuscissimo a raggiungere un numero di destinatari 100, 1000 volte superiore all'attuale, la natura specifica dei partecipanti a "Tabularasa" non potrebbe comunque cambiare, facendoli diventare un... grosso pubblico.

Credo, invero, con Ortega y Gasset (cui debbo lo spunto d'apertura del presente articolo) che l'umanità vada distinta in due categorie: gli esigenti, che caricano su di sè responsabilità e doveri, nella ricerca di senso alla propria esistenza, ed i transigenti, per i quali «vivere consiste nell'essere ad ogni momento ciò che già sono, senza sforzo di perfezione dentro sè stessi, galleggianti che vanno alla deriva».

Tale fondamentale bipartizione spiega, io credo, le volontarie ragioni di quella nostra assenza...

Come si sa, il vocabolo massa, sinonimo d'impasto, di mucchio, di mescolanza, deriva dal greco; e pare che il primo a tradurlo in termini politici, e con connotazioni fortemente negative, sia stato Aristotele. D'altronde, l'avversione per il numero quale base assiomatica della democrazia, accompagnata al disprezzo per la mediocrità della maggioranza, è una costante del pensiero europeo, da Aristotele a S. Agostino, da Machiavelli a Goethe, da Stuart Mill a Voltaire, fino a Ortega y Gasset e oltre...

Ma è, appunto, attorno agli Anni Venti e Trenta del Novecento, che si manifesta con rinnovato vigore la critica verso la società e la cultura di massa, filiazioni entrambe della matrice egualitaria e dei mutamenti socio-politici connessi alla «rivoluzione dal basso». È in questo scorcio di secolo, che sale l'analisi-denuncia della massificazione, il cui carattere disumanizzante viene ancor più reso evidente dall'interazione di tre nuovi fattori: l'industrializzazione, il tecnologismo, la conurbazione.

E sulla fabbrica divoratrice di risorse umane, sulla metropoli tentacolare e brutalizzante, sull'uomo-robot seppero scrivere pagine memorabili scrittori e poeti, romanzieri e filosofi.

In che misura sono ancora oggi applicabili quelle idee, quei sentimenti, quelle intuizioni; o è il concetto stesso di massa a risultare in qualche modo inadeguato?

Mi pare valga la pena di tentare una pur breve risposta, individuando alcuni elementi interpretativi del fenomeno, che valgano una qualche utile distinzione della e dalla massa stessa.

Accanto dunque a quella che potremmo definire l'ideologia aristocratica, che nella massa ha da sempre paventato il sopravvento dell'uomo medio, ovvero l'aggregato di soggetti diversi, resi forzosamente simili, in cui avvenga «la dissoluzione dell'individuale nel collettivo» (per servirci ancora una volta di Ortega) - accanto, dicevo, alla plurisecolare insofferenza delle èlites per le folle, alias moltitudini, alias popolo, si situa un'altra linea di pensiero, particolarmente in auge dalla fine Ottocento in qua, che interpreta in forme agiografiche ed in modo tardo-romantico il termine in argomento.

Mi riferisco -il lettore l'avrà compreso- al filone socialista, laddove le masse andavano considerate come proletariato ancora privo di necessaria coscienza di classe (Marx), a ridestare la quale sarebbe servita l'azione vivificante ed unificante del Partito e/o degli intellettuali (Lenin, Gramsci).

Inutile sottolineare che questa seconda linea interpretativa, connotata da messianismo e da pedagogismo sociale, ha nel frattempo perduto ogni spinta propulsiva, e con ciò futuro ed interesse.

Resta la linea... realistico-aristocratica, la quale quando considera la massa un concentrato di credulità e d'incompetenza, di irrazionalità e superstizione, ebbene, sa ancora cogliere nel segno!

Che, difatti, «il popolo» sia «un animale pazzo» costituisce una verità sin troppo evidente; facilmente riscontrabile al tempo di Guicciardini come ai giorni nostri. O come 2500 anni fa.

Scrive ad esempio Erodoto, per fare una delle tante citazioni al riguardo possibili, che: «la moltitudine è priva di senno (...) il tiranno quando fa qualcosa, almeno sa quel che fa: il popolo lo ignora. E come potrebbe saperlo, non avendo nè istruzione nè conoscenza naturale del bene e del bello? Esso si caccia nelle imprese, impietoso come torrente d'inverno, e le spinge avanti senza riflettere». (Si potrebbe osservare, a commento, che compito precipuo dei tanti governanti-tiranni, avvicendatisi lungo i vari periodi storici e regimi politici, è stato proprio di tenere sotto controllo, o se del caso suscitare ed alimentare, le credulità, irrazionalità, superstizioni di cui sopra...)

Mai come in questi decenni si sono esercitate sulla massa (: basti pensare all'incessante azione della pubblicità commerciale) spinte manipolatrici ed omologanti.

In questo suo tipico ruolo, però, in questo suo essere massa di manovra, «la massa» non è distinguibile da epoca ad epoca. Nè la sua naturale influenzabilità è certamente una caratteristica propria dell'era moderna.

Il fatto è che, se pure al demos oggi viene attribuito il ruolo da protagonista ufficiale, dietro il paravento del riconoscimento di principio vi è (e vi è sempre stata, e non potrebbe essere diversamente) una minoranza esercitante, secondo le variabili del momento, la regìa.

Ben sappiamo, inoltre, che i reggitori d'antan riuscivano spesso ad escogitare ingegnosi stratagemmi per distogliere l'attenzione dai loro giochi di potere, e per celare i loro errori. Col mecenatismo, magari. O proclamando guerre sante; oppure ricorrendo alla consueta risorsa del panem et circenses.

La differenza, o meglio, l'elemento che «fa» la differenza è che i moderni tiranni sono in grado di adottare, perfezionati, tutti assieme questi accorgimenti tecnici, e senza nemmeno rischiare alcunchè. Ultimamente, poi, a definire la questione (: «Cercate di confondere la gente -avverte il Faust di Goethe- chè accontentarla assai difficile è»), sono intervenuti formidabili strumenti di produzione e pianificazione della cosiddetta volontà popolare, le cui presunte scelte ed eventuali reazioni vengono costruite in laboratorio; e lì anabolizzate, verificate e controllate caso per caso.

Si tenga altresì presente un altro dato essenziale: grazie alla globalizzazione di merci & idee, l'uomo civilizzato dispone di un ininterrotto flusso d'informazioni; gode di una serie -sino ad ieri impensabile- di «libertà». Di muoversi, di vedere, di capire, di confrontare, di comunicare...

Continuare pertanto a parlare di una massa, di un unico soggetto/oggetto omogeneamente raggiungibile con procedure lievi e sbrigative, riesce alquanto limitativo.

Credo invece più rispondente alla realtà, alla realtà attuale, prendere in considerazione l'esistenza di più «sottomasse», di un insieme cioè di vaste entità fra loro intercambiabili e scomponibili per meglio recepire «il messaggio».

Credo, in altri termini, di trovarci in presenza di una pluralità di individui i quali, in apparente autonomia, si raggruppano e si livellano a secondo delle informazioni di cui dispongono, degli oggetti posseduti o che sono indotti a possedere, a seconda dei modelli comportamentali che ad essi vengono proposti; e su quelle mutevoli ragioni vanno a radicare i loro spazi, i loro valori, le loro forme di potere.

Detto con estrema concisione, assistiamo oggi ad un tumultuoso processo di trasformazione/frantumazione di massa. Comportante un'abnorme diffusione di nuovi, provvisori stili, interessi, caratteri, gusti, sensibilità.

La nostra -avverte il sociologo U. Cerroni- è un tipo di società universale dove «gli individui sono inseriti funzionalmente in un meccanismo che li relaziona continuamente, senza l'intervento della loro volontà».

A dettare le volontà finali ci pensano loro, gli educatori del popolo consumatore-produttore il quale, beneducato, punta al concreto, alla praticità, a non aver problemi; che sa che le idee hanno, sì, importanza, ma solo se danno utili e riscontri, solo se in grado di lanciare un prodotto.

I managers dell'educazione, dal canto loro, sanno benissimo distinguere le fasce ed i settori entro cui posizionare le masse loro affidate, suddividendole in gabbie, virtuali, aperte su altre gabbie. Dove si trovano i giovani e gli sportivi, le mamme e gli automobilisti, e via, via scomponendo fra i tanti generi di varia umanità...

E l'uomo, in tutto questo? L'uomo, «canna pensante» di pascaliana memoria, non si è forse ridotto a fungere da «transito di cibi», come icasticamente lo descrive Leonardo da Vinci?!

Sicchè, dinanzi alla mostruosa proliferazione di sotto-massificati, si pone urgentemente la scelta esistenziale fra «apocalittici o integrati?»...

C'è chi questa scelta l'ha già fatta. Fra essi annoveriamo Giorgio Bocca (che pur avrebbe titolo per mostrarsi integrato DOC: è democratico e ha fatto la Resistenza), il quale, in un'intervista resa tempo addietro a "Prima", non esitò a dichiarare -e noi con lui- che: «La logica industriale è esattamente (...) l'aumento del profitto e l'espansione del mercato. Tradotto nell'informazione, la vendita al maggior numero possibile, alle masse, di ciò che le masse più appetiscono: la merda».

 

Alberto Ostidich

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