«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VIII - n° 3 - 30 Settembre 1999

 

La fuga dalla tirannia liberal democratica

 

 

 

Gli appassionati di politica internazionale avranno seguito quanto accaduto a Teheran nel mese di luglio: le manifestazioni degli studenti che si oppongono al regime teocratico nato venti anni orsono dalla rivolta contro lo Scià, la reazione violenta dei pasdaran, guardia armata della rivoluzione khomeinista, la contrapposizione tra i gruppi di potere degli ayatollah Khatami e Khamenei.

Anche i giornali italiani, solitamente così avari di notizie da quelle latitudini, hanno dato notevole risalto alle cronache di questi eventi. Non è mancata l'intervista ad un qualsiasi sconosciuto esule che vive a Parigi, a Londra o, magari, a Roma, che ha vaticinato l'imminente caduta del dispotico regime ormai odiato da tutta la popolazione. Con la immancabile conseguenza, si potrebbe dire lo svolgimento di un ben noto teorema, che anche in quella terra sfortunata vi sarà finalmente l'affermazione degli immortali princìpi di libertà individuali che, vivaddio, ormai tutto il mondo riconosce e garantisce. Secondo uno schema già collaudato in altre occasioni, si è potuto leggere che il sistema iraniano è marcio e si regge solo sulla corruzione ed il privilegio dei pochi e la paura dei molti (chi meglio di noi italiani potrebbe capire questa triste situazione); che i giovani della medio-alta borghesia, che vedono le televisioni occidentali col satellite e si collegano tramite Internet con i coetanei del resto del mondo, non ne possono più del chador e della retorica che parla loro di martiri della rivoluzione ed amenità simili, mentre soltanto i meno colti sarebbero d'accordo con l'attuale regime; che il sistema economico voluto dagli eredi di Khomeini, basato su un rigido controllo statale delle attività produttive, sta portando alla bancarotta un paese che necessiterebbe, guarda caso, di un deciso liberismo per intraprendere davvero la strada dello sviluppo. Ovviamente, si sono trascurati altri particolari che potevano risultare interessanti per una migliore conoscenza della situazione reale di quel paese, per esempio che le giovani donne porteranno pure il chador, ma vanno all'università in percentuale più alta rispetto a quella nostra e di molti altri paesi occidentali cosiddetti evoluti.

Autorevoli esponenti politici di casa nostra, appartenenti ad entrambi gli schieramenti che vanno per la maggiore, sia pur con tutte le cautele del caso dal momento che siamo il primo partner commerciale europeo dell'Iran ed il secondo al mondo (pecunia non olet, si potrebbe commentare), hanno levato le loro accorate voci per implorare che finisca la repressione contro le giustificate rivendicazioni di maggiore libertà, vengano immediatamente scarcerati gli studenti arrestati e si arrivi ad instaurare una matura democrazia, tipo quella occidentale tanto per intendersi, anche in Iran. Leggermente confuso è apparso il nostro Ministro degli Affari Esteri (mai come nel suo caso l'uso del termine «affari» mi sembra giustificato). L'onorevole Dini, che anche durante l'aggressione alla Serbia ci aveva abituato a qualche uscita guascona, in prima battuta ha dichiarato ai giornalisti che si tratta di «questioni interne di uno stato sovrano», riesumando per l'occasione la salma del principio della «giurisdizione domestica»; in seguito, in un comunicato ufficiale, ha corretto il tiro allineandosi sulle posizioni degli altri politici italiani, principalmente di quelli che gli hanno consentito di essere eletto deputato.

Fin qui le reazioni italiane, praticamente una sagra paesana dell'ovvietà e dell'opportunismo. Probabilmente, le speranze degli anti-khomeinisti di casa nostra si sono raffreddate quando, un paio di giorni dopo, le strade della capitale iraniana sono state invase dai partecipanti ad una manifestazione di sostegno al regime ed in particolare al suo esponente più ortodosso, l'ayatollah Alì Khamenei.

Ovviamente, di quanto si dice dalle nostre parti gli iraniani possono fregarsene tranquillamente, visto il peso specifico dell'Italia in politica estera. Non credo, insomma, che gli ayatollah dalla faccia severa perderanno il sonno per quanto da Roma viene loro chiesto con tanta determinazione.

Invece, in un'ottica di lungo periodo che nella politica internazionale è sempre preferibile per giudicare i singoli avvenimenti, molto più preoccupante mi sembra l'atteggiamento assunto dal governo americano. Naturalmente è necessario guardare oltre alle fin troppo caute dichiarazioni ufficiali, le quali non sono andate al di là di un invito al governo iraniano a rispettare le libertà di espressione e di riunione degli studenti contestatori e di un generico «allarme» per le aggressioni e le violenze. Si è anche precisato che il governo americano non è pregiudizialmente contro gli ayatollah.

Non mancano certo gli esempi di come l'iniziale prudenza di Washington, abbia avuto ben altri sviluppi dopo pochi mesi. Mi sembra, infatti, assai strano che, in una zona dello scacchiere mondiale ove il livello di attenzione americano è sempre stato assai elevato, Clinton, o magari il suo successore, si facciano sfuggire l'opportunità per inserirsi nella crisi e tentare di rovesciare un regime che non appartiene al club dei fedeli ed ossequiosi alleati, al quale noi ci onoriamo di essere iscritti, e che sfugge ancora all'asfissiante controllo delle centrali mondialiste.

Non si dimentichi che da quelle parti, con un governo più malleabile, potrebbero prospettarsi lucrosi affari petroliferi che le compagnie targate USA non disdegnerebbero in nome dello status quo. È tristemente noto, per fare un esempio anche geograficamente vicino, il ruolo che quelle hanno avuto nello spingere Bush alla guerra contro Saddam Hussein. Che cosa ne penseranno, altresì, a Washington degli armamenti che il governo iraniano si è recentemente procurato in Russia e del possibile riavvicinamento con l'Iraq, già più volte paventato dall'onnipotente signore del Medioriente, Israele?

Infine, tra pochi mesi, comincerà in America la campagna elettorale per le elezioni presidenziali e lo scontro «politico» tra i candidati yankee ha spesso avuto ripercussioni anche in politica internazionale: si sa, infatti, che in America un nemico da combattere in nome della libertà e degli emendamenti alla costituzione può sempre far comodo.

Probabilmente, l'iniziale attendismo dell'autoproclamatosi gendarme dell'umanità, è dovuto soltanto alla necessità di valutare se il movimento degli studenti è un fuoco di paglia che verrà annientato nelle prossime settimane, oppure gode di un effettivo riscontro nella popolazione, dimostrandosi capace di creare una reale opposizione che potrebbe essere opportunamente manovrata e sfruttata. Com'è suo costume, dunque, Washington gioca con la vita degli altri.

Non credo di avere particolari motivi, né politici né tantomeno religiosi, per sentirmi, come effettivamente mi accade, spiritualmente vicino alla teocrazia iraniana che sta tentando di difendersi dai suoi nemici interni e dai suoi potenziali, ed assai più pericolosi, nemici oltreconfine. È una simpatia istintiva che ritengo dovuta verso uno dei pochi Paesi al mondo che ancora riesce a sfuggire alla tirannia più alienante, quella del sistema liberal-democratico, e che ha saputo, nel corso della sua storia recente, resistere orgogliosamente alle lusinghe tanto del mondo capitalista quanto di quello comunista.

A parte questo, io credo che, alla luce di quanto è successo ieri e potrebbe succedere nei prossimi mesi nei Balcani, i motivi di preoccupazione che ho sopra elencato, non dovrebbero riguardare soltanto gli ayatollah ed i loro pretoriani, ma anche chi, nelle crisi internazionali da altri provocate per i propri inconfessabili motivi, si trova più vicino all'occhio del ciclone.

E poi, in completa sincerità, quando i pennivendoli di casa nostra parlano con aperto disprezzo di un Paese che vive ancora sprofondato nel medioevo, mi capita di soffermarmi a riflettere e di chiedermi se siamo così fortunati noi, che viviamo in quella civiltà che rappresenta la sintesi suprema ed irripetibile tra rinascimento del pensiero occidentale e princìpi universali delle rivoluzioni massoniche.

 

Enrico Desii

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