«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VIII - n° 3 - 30 Settembre 1999

 

Memoria - Archivio

Irredentismo del Carnaro

 

 

 

Per riscattare Fiume italiana in prima linea l'irredentismo italiano

Le omissioni di Salandra al «Patto di Londra» (26.4.1915) usate da Wilson e da Clemenceau contro la liberazione del Carnaro. Plebiscito popolare alla città Olocausta (30.10.1918) per l'unione alla Patria vittoriosa. D'Annunzio condanna a Centocelle (12.5.1919) la «spietata plutocrazia transatlantica». A Ronchi (31.8.1919) il giuramento di ufficiali e legionari -in nome di tutti i Caduti- per la redenzione del «limes italicus»

Per capire, davvero conoscere Fiume, il Carnaro, le genti giulie e il loro travaglio nel volgere della Storia -in particolare quello affrontato congiuntamente nell'abnegazione alla coscienza nazionale d'Italianità- è doveroso considerare con volontà d'equa interpretazione, e malgrado la prolissità contemporanea verso la genesi sana d'estrazione, l'eroica prerogativa che li distinse nella stoicità dell'Irredentismo (da inredento nell'etimologia), quello promosso dal legislatore M. R. Imbriani nel 1877 per il riscatto delle province orientali della nostra Penisola e rimaste soggiogate alla giurisdizione dell'Impero absburgico d'Austria e Ungheria anche alla fine della 3ª guerra d'Indipendenza (1866), indi nel fenomeno politico del Movimento d'Azione Patriottica allorché, al termine del congresso di Berlino tra le Potenze europee sulla situazione balcanica dopo la vittoria russa sulla Turchia (1878), il Regno d'Italia ne uscì senza nessun compenso territoriale nel Trentino, sul Litorale giuliano e istriano, nonché in Dalmazia, mentre -poco dopo- Guglielmo Oberdank spirò nella città di San Giusto sul capestro austriaco per il suo ardore italico.

A tale movimento diedero un valido contributo il giurista G. Bovio, il radicale F. Cavallotti, il poeta G. Carducci (genuino vate della Nazione quale simbolo di Civiltà), l'intellettuale A. Saffi (già triumviro nella Repubblica Romana con G. Mazzini e C. Armellini) e altri patrioti, ma ottenne lo sprone più efficace dagli interventisti nel 1914-15, cioè da coloro che quanto B. Mussolini col quotidiano "Il Popolo d'Italia" e sulle piazze, insieme ai sindacalisti rivoluzionari F. Corridoni e Alceste De Ambris, sostennero il perfezionamento dell'unità nazionale (omogeneizzazione invocata anche dal riformista L. Bissolati, dai futuristi F. T. Marinetti, G. D'Annunzio e da una falange di cittadini) riuscendo a battere il neutralismo d'opportunità di capitalismo e liberali, dal massimalismo socialista e dalla 2ª Internazionale marxiana, infine buona parte del clero parecchio filo-asburgico.

 

Fenomeno storico d'ampio sviluppo

Però, prima d'analizzare le particolarità dell'anelito fiumano alla redenzione con Trieste, Pola e la Dalmazia, è ineluttabile rilevare come Angelo Vivante (1869-1915), redattore de "Il Piccolo", nell'introduzione del suo tomo "Irredentismo Adriatico" (1914) accusò il Regno d'Italia di non avere mai studiato questo fenomeno politico nel suo valore nazionale e continentale, né in merito alle province giulie, molto meno per Nizza, la Corsica e Malta, sebbene già allora si sapeva che «la Francia ha trattato e tratta gli Italiani -quei pochi che si sentono ancora tali- assai peggio del centralismo austriaco».

Inoltre, nel 1912, A. Vivante presagì che l'Irredentismo italico si sarebbe manifestato ben oltre la liberazione giulia, d'Istria e del Quarnero. Invero, già nell'Anno XIX dell'Era Fascista (ottobre 1940-41) i Gruppi d'Azione Irredentista Nizzarda, Corsa e Maltese fecero riferimento a quanto sostennero G. Garibaldi per Nizza, Pasquale Paoli per la Corsica, A. Cini per Malta a conferma della loro missione di completamento del Risorgimento, di cui si ribadì la necessità col volume "Vincere", edito in Roma dalla SAEG Editrice, galvanizzata da E. Escard, C. Ferri, P. Giovacchini, C. Mallia, L. Messina quale esigenza di Roma ed italiana nel Mediterraneo per la realizzazione anche di maggiore civiltà sociale. Per ciò, a Malta gli inglesi mandarono a morte Carmelo Borg Pisani durante il 2° conflitto mondiale, oltreché per la sua fede nella redenzione all'Italia della propria Isola.

Quindi il martirio dell'irredentista C. B. Pisani per Malta italica è identico, nella grandezza della sua idealità per la nostra Nazione unita, a quella dei trentini C. Battisti, F. Filzi e D. Chiesa, del goriziano E. Cravos, del triestino G. Oberdank e del capodistriano Nazario Sauro. Si inseriscono di rigore, con le loro epiche tribolazioni, nell'eccelso lirismo della tragedia adriatica "La Nave" (1907) con cui il Poeta soldato della Pescara foggiò l'irredentismo -specie quello dell'Amarissimo- per «far riecheggiare nel cuore della nazione imbelle quello spirito missionario onde poco prima s'era conclusa la Laus Vitae: ... Su, svegliati! È l'ora. /Sorgi. Assai dormisti. L'amico /divenuto sei della terra? / Odi il vento. Su! Sciogli! Allarga! /Riprendi il timone e la scotta; /ché necessario è navigare, / vivere non è necessario!», particolari -inoltre- con i quali G. Damerini così evidenziò nel libro D'Annunzio a Venezia (1922) la documentazione e il codazzo politico nei commentari dei critici in quest'opera dell'amico di Randaccio, l'eroe che nel 1917 cadde sul Timavo.

 

«Limes italicus» da età augustea

Quando la Grande Guerra volse alla conclusione (estate 1918), mentre l'eco cupa della battaglia del Solstizio accentuò sulla fronte italiana -nelle trincee dell'altopiano dei Sette Comuni, su Cima Grappa e sulle sponde del Piave- la metastasi che disintegrò l'Impero austro-ungarico e il suo esercito (mutazione che cominciò a Vienna il 21 novembre 1916 con la morte di Francesco Giuseppe I), sulla riva tarsatica della Fiumara liburnica lo studioso Edoardo Susmel approntò per gli editori F.lli Treves di Milano la prefazione del proprio libro "Fiume attraverso la storia" (il secondo migliaio di quest'opera fu stampato nel 1919) in cui precisò che «tutti sapevano che l'Italia era scesa in campo per riscattare i suoi figli», quelli rimasti irredenti nel Trentino, nella Giulia, in Istria e Carnaro, anche in Dalmazia, ma «nessuno sapeva fino a qual punto sarebbero andate le rivendicazioni nazionali» in base alle regole dell'alleanza stipulata il 26.5.1915 col Patto di Londra tra l'Italia, Francia, Gran Bretagna e la Russia czarista, perché i suoi dettagli -dopo la firma dei contraenti- rimasero segreti.

A svelare i misteri effettivi del Patto di Londra provvide -nel novembre 1917- il russo Vladimir Uljanov, quel compagno Lenin che, dopo il successo della rivoluzione bolscevica a Pietrogrado e Mosca, volle denunciare alle classi operaie dei Paesi occidentali l'ingordigia delle potenze capitalistiche (in particolare Francia, Gran Bretagna e poi -nel 1918- anche gli USA) sulle spartizioni e sui controlli dei territori europei di Germania ed Austria alla conclusione del conflitto, segnalando che Fiume e il Quarnero erano destinati a rimanere austriaci, o dei paesi slavi, per la rinuncia del primo ministro A. Salandra e del suo incaricato agli Esteri S. Sonnino alla loro redenzione già nel momento dell'accordo.

Alla nostra gente, la vergogna di tale rinuncia del governo di Salandra venne resa nota da "Il Corriere della Sera" il 14.2.1918, mentre a Fiume provocò (quando la notizia filtrò attraverso la fronte sul Piave) una pesante costernazione e risultò d'insulto non soltanto al martirio degli irredenti, ma anche ai suoi figli che, arruolatisi volontari tra i soldati in grigio-verde, caddero per la Patria senza più terre italiane sotto il giogo straniero. Tra questi Mario Anghebeni, Ipparco Baccich, Annibale Noferi e altri valorosi.

L'Arco romano, il Vallo latino, i sarcofaghi dei sacerdoti augustali e altri attestati (case, mura, lapidi, monete da Ottaviano Augusto a Costanzo III ecc.) testimoniano da due millenni l'italianità di Fiume, soprattutto la sua funzione di Limes italicus nei Balcani, ovvero di confine italico tra il Carnaro e la Liburnia.

 

Pauroso inganno l'utopia Wilson

Altresì, nel 1918, il 18 ottobre il deputato Andrea Ossoinack dichiarò al Parlamento ungarico che Fiume diventava arbitra dei suoi destini, il giorno 29 il popolo fiumano inalberò la prima bandiera italiana sul balcone della Società Filarmonico-drammatica e nel di 30 il Consiglio nazionale italiano di Fiume -insieme al patriota Antonio Grossich e al sindaco Vio- valendosi del diritto di libertà e d'indipendenza, proclamò Fiume unita alla sua Madre-Patria, l'Italia.

Già in quei momenti però, la redenzione di Fiume e di Dalmazia iniziò a venire discussa dall'inglese D. L. George e dal francese M. Clemenceau, ma soprattutto fu ostacolata dal presidente yankee T. W. Wilson che rinfacciando agli alleati dell'Intesa il contributo decisivo degli USA nella sconfitta degli Imperi centrali, minacciando l'Italia di esigere l'immediato pagamento dei debiti contratti durante il conflitto, attuando con i suoi visionari 14 punti perla pace l'istituzione fallimentare della Società delle Nazioni, fece anche confezionare quei trattati di Versaglia (1919) e di Saint Germain (1920) in funzione di lievito per gli Stati-cuscinetto quali si confermarono poi la Polonia di Pilsudski, la Cecoslovacchia di Masaryk e il regno di Jugoslavia assegnato alla dinastia Karadjordjevic, che successivamente non furono estranei alla deflagrazione del 2° conflitto mondiale, elaborato dalla plutocrazia. Cosi, quando V. E. Orlando abbandonò nell'aprile 1919 la conferenza di Parigi per la pace affermando che «l'Italia preferisce la fame al disonore» e si dimise, non accettando che la Jugoslavia -resa arrogante dallo yankee Wilson- estendesse i suoi confini alle porte di Pola, Trieste e Gorizia, quale primo ministro gli subentrò quel F. S. Nitti a cui Gabriele D'Annunzio appioppò il nomignolo di «Cagoja, il grande porco che sgoverna l'Italia» ("Immagini di Storia, 10, L'impresa di Fiume", 1995) perché, come aveva annunciato nella Lettera ai dalmati -pubblicata ne "la Gazzetta di Venezia" e da "Il Popolo d'Italia" nel gennaio precedente- sostenne che «Io e i miei compagni non vorremmo essere più italiani di una Italia rammollita dai fomenti transatlantici del dottor Wilson e amputata dalla chirurgia transalpina del dottor Clemenceau! [...] non ossi, non tozzi, non cenci, non baratti, non truffe. Basta! Rovesciate i banchi! Spezzate le false bilance!».

 

La sfida legionaria illumina il Carnaro

Fu il germoglio politico dell'impresa di Fiume. Nella postilla di A. Giuliotti al suo volume "Disobbedisco" (1935) si distingue che la redenzione di Fiume avvenne in quattro momenti -la marcia da Ronchi, le trattative con Nitti nel dicembre '19, la costituzione della Reggenza del Carnaro, il Natale di Sangue- mentre la passione per la città Olocausta e per il Quarnaro romano illuminò di maggiore patriottismo, nel segno della penosa figura dantesca, tutto ciò «che Italia chiude e i suoi termini bagna!»

Il compimento della redenzione di Fiume e di Zara alla Nazione ha radici profonde, furono indicate da G. D'Annunzio già sul "Journal" (30.9.1914) con l'articolo "Fluctibus et fatis" in cui -unificando i sacrifici di queste città alle glorie di Venezia- specificò che «quando l'Italia varcherà i confini dell'Istria romana, su tutte le porte marine delle città dalmate il libro chiuso dei Vangeli si riaprirà sotto l'artiglio del Leone, quello di San Marco».

Si ravvisi altresì, nel discorso che B. Mussolini indirizzò ai fiumani nella primavera 1919 -pressoché in coincidenza alla fondazione dei Fasci di Combattimento a Milano- per indicare come «il Mediterraneo tornerà nostro, quanto Roma tornerà ad essere il faro della Civiltà nel mondo», altrettanto «il destino di Fiume è garantito soltanto con l'annessione all'Italia» in quanto la terra di A. Grossich è italiana per lingua, per tradizione e per volontà, avendo i «Fiumani mantenuta viva la fiamma della loro mirabile fede!».

In quell'anno, il 12 maggio, al campo d'aviazione di Centocelle, Gabriele D'Annunzio -comandante della Squadriglia Serenissima, quella del volo su Vienna- ribadì «Volgiamo le spalle all'Occidente che ogni giorno più si isterilisce, s'infetta e si disonora in ostinate servitù. Separiamoci dall'Occidente degenere che, dimentico d'aver contenuto nel suo nome "lo splendore dello spirito senza tramonto", è divenuto una immensa banca giudea in servizio della spietata plutocrazia transatlantica», aggiungendo poi nel giorno della Pentecoste «se beato è il discepolo che avanza il maestro, più beata è la figlia che avanza la madre. Ora Fiume è l'esempio d'Italia: è l'onore della nostra coscienza latina che sola nei secoli formò e, oggi, forma i veri uomini liberi», mentre -per la sua ribellione ai politicanti di Roma- sulla sponda del Carnaro è consunta da un soffio di ardore, «anzi il nome giusto della città non è Fiume, ma Olocausta, perfettamente consumata dal fuoco».

A Ronchi intanto, il 31 agosto, sette ufficiali (R. Frassetto, V. Rusconi, C. Grandjacquet, R. Cianchetti, L. Ciatti, E. Brichetti, A. Adami) e i loro legionari giurarono «in nome di tutti i morti per l'unità d'Italia» di non permettere che si neghi a Fiume l'annessione completa alla Patria italica, concludendo «Fiume o morte!».

Per l'irredentismo adriatico, per i combattenti del Grappa e del Piave, per gli autentici italiani iniziò così l'impresa di Fiume, sapendo che, come scrisse G. D'Annunzio a B. Mussolini, «la vittoria ha gli occhi chiari di Pallade», non si lascia bendare.

 

Bruno De Padova

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