«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VIII - n° 3 - 30 Settembre 1999

 

L'emarginazione nella società debole

 

 

 

La domanda di ordine sta crescendo nei paesi europei e in tutto l'occidente, e di fronte a forme di ribellismo serpeggiante assume, a sua volta, forme di vero ribellismo. Ma rafforzare il potere politico, amministrativo, di polizia in una società moralmente degradata, senza valori e senza cultura, nella quale il mercato e la competizione non hanno eliminato le diseguaglianze e la povertà, quando non le hanno inasprite, equivale a ridurre il male o a peggiorarlo? Allora, bisognerebbe lasciar fare ad ogni costo, in omaggio ai sacri princìpi democratici, oppure è preferibile imporre un ordine pur che sia? La risposta è, naturalmente, nel grado di sviluppo e di equilibrio raggiunto da una determinata società. Ma in qualche misura l'antinomia fra libertà e autorità è sempre costitutiva della politica? Ecco perché l'idea del fascismo, se fosse nuovamente movimento capace di guardare oltre quella antinomia, per farsi atto più vasto e penetrante di volontà di rinascita morale, individuale e collettiva, il fascismo, comunemente trattato oggi nel mondo come l'antitesi della libertà, potrebbe invece ancora indicare la via per la libertà nell'ordine. Ecco perché Carli, ahimè, ha ragione quando invoca: «Torna, Mussolini, torna». «Dal basso non salgono iniziative né proposte. Non si affermano nuovi princìpi di legittimità» (Ferrero). La liberal-democrazia si rivela alla fine un sacco vuoto. Nonostante tutte le provvidenze, tutte le sovvenzioni, sempre più gravose per il bilancio pubblico, le differenze si approfondiscono fra sacche di povertà e zone ricche. Le popolazioni disertano la campagna, che muore, e si ammassano in città sempre più grandi e sempre più invivibili, dove quanti ne hanno i mezzi si appartano a vivere fra loro. Le differenze generano ignoranza reciproca, poi odio, distacco, infine tentazione di secessione trasversale: fra città e campagna, fra nord e sud, fra razze e fra religioni. Ma vi sono anche ostilità e scontri immotivati, che denunciano un più radicale scollamento della società moderna. Scontri fra bande raccolte attorno a vuoti simboli e pretesti, unicamente per contrapporsi fra loro. Scoppi di violenza previsti e provocati e tuttavia privi di preciso movente, nei quartieri urbani popolari, nelle discoteche, nei supermercati, negli stadi rivelano le difficoltà crescenti che le società attuali, non solo quelle europee, incontrano nei rapporti con gruppi ostili indeterminati, di immigrati, di consumatori e spacciatori di droghe, di tifosi di calcio o di musica rock. I quali si ribellano alla legge e alle istituzioni, commettono atti di violenza, contro la scuola, la polizia, le infrastrutture, le attività produttive, si sentono e si pongono al di fuori della politica, della economia e della cultura. Una dissociazione che si può definire la noia della società. Quando in Italia si analizza il separatismo regionalistico, oppure il nuovo e vecchio terrorismo, e se ne denunciano le origini storiche e socio-economiche, occorre comunque ricollegarne le cause specificamente italiane a queste forme comuni a tutte le società attuali, dall'Asia alla California. Abbiamo ancora tanta strada da fare verso il peggio, ma poiché vogliamo sempre ignorare i nostri meriti, come non ci rendiamo conto dei nostri vantaggi, facciamo il possibile per ricuperare il ritardo.

Già bimbi di pochi anni rispondono con la violenza verbale ai tentativi di educarli. Poco più avanti risponderanno con la violenza fisica. Che cosa può fare un insegnante quando un allievo che non studia a un rimprovero risponde: «Vaff...!». Il più delle volte, ma non necessariamente, quell'allievo vive in quartieri degradati, è vittima di maltrattamenti e violenze sessuali, da parte di una famiglia divisa o provata dalla disoccupazione e dalla miseria. Ma la crisi dell'insegnamento è più vasta e più radicale degli scompensi sociali, che ne sono in buona parte la conseguenza. Demagogicamente spinto ad una democratizzazione preconcetta e incondizionata, insabbiato nella massificazione della scuola secondaria, demoralizzato dal dogma della privatizzazione, l'insegnamento va verso la bancarotta dello Stato, almeno dello Stato-Nazione, in quello che è un suo compito irrinunciabile: l'educazione dei cittadini. Può essere conveniente respingere la selezione, come la maggior parte della sinistra continua a volere, allo scopo di non escludere qualche meritevole, quando la massima priorità e urgenza è la formazione di una valida classe dirigente, condizione prima per poter sperare di affrontare con successo tutti i ritardi sociali?

L'estetica nera è divenuta espressione dominante della gioventù occidentale, che non ne sa esprimere un'altra ugualmente nuova e incisiva. Questo non è solo il risultato di un modello sociale multirazziale imposto dalla economia di mercato, ad esempio con la presenza obbligatoria del nero nei film americani a grande diffusione e ormai anche nello spettacolo di massa europeo. La musica «hip-hop» e «rap», ha assunto una valenza universale, perché è il mezzo di espressione collettivo di una minoranza discriminata e come tale ha prestato la sua voce ad altre minoranze, la cui emarginazione non è di origini razziali. La «gangster rap» viene imitata in Europa, proprio per il suo carattere estremistico, antiassimilazionista, sessista e violento.

La democrazia formale, incapace di affrontare il male alla radice, si sforza di ristabilire le condizioni normali del dialogo e del confronto. Vorrebbe poter «intégrare» le minoranze ostili. Ma per attuare nei loro confronti una qualsiasi azione di recupero, occorrerebbe poterne in partenza definire l'individualità, i contorni, i limiti. Ciò è arduo perché si tratta di agglomerazioni mutevoli, inafferrabili, auto-destabilizzanti, non catalogabili né come classe sociale né come etnia definita. Prive di precise rivendicazioni economiche, esse si costruiscono una individualità unicamente nel rifiuto di tutto ciò che caratterizza in positivo la società. Trattano come estranei e nemici tutti quei gruppi e individui che, invece, lavorano insieme per produrre ricchezza e cultura. La spontaneità di questi gruppi fa sì che essi siano privi di struttura organizzativa e rappresentativa. Nella maggioranza dei casi è impossibile reperire al loro interno un interlocutore responsabile, con il quale concordare un qualsiasi piano di incontro o di integrazione. Di questo rifiuto multiforme e sfuggente si è già avuta una manifestazione nel '68. Anche quel movimento di contestazione e di violenza non aveva basi economiche e sociali definite, ma in seguito ad esso la società europea non è più stata la stessa. Fu allora che l'economia sfuggì sia al controllo pubblico, sia a quello di entità intermedie come la famiglia, il mestiere e la professione, per diventare dominio incontrastato delle grandi concentrazioni affaristiche. Qual'è la risposta politica in generale, al di là dell'imperativo verbale umanitario democratico? La sinistra, ormai quasi totalitaria in occidente, ripiega sulle formule minimaliste: «Guai reprimere! No alla tolleranza zero!». Propone una maggior presenza nei quartieri, il «delegato di quartiere», per essere vicini sia a chi chiede sicurezza sia a chi la minaccia. Propone una più grande mobilità delle forze disponibili, uno sforzo di formazione dei poliziotti, il potenziamento dell'informatizzazione, l'accesso degli extracomunitari, degli emarginati di ogni tipo nella gestione dei servizi e magari della stessa polizia. I neri nella polizia americana, i pachistani in quella inglese, i magrebini in quella francese. Quale può essere il risultato di una politica di questo respiro? Nella maggior parte dei casi, i ribelli restano tali e i poliziotti si sentono abbandonati. Eppure, paradossalmente, questo tecnicismo politicamente debole o assente, lascia intravedere un salto di qualità in senso totalitario, con il possibile ricorso a nuovi mezzi «orwelliani» di controllo, di prevenzione e di repressione, che la guerra nel Kosovo ha permesso di collaudare, come gli aerei spia, in grado di rilevare ogni movimento di singoli, di gruppi e di folle.

È l'immobilità, la mancanza di dinamismo culturale e morale delle società attuali che le priva di forza attrattiva e della capacità di dare risposte valide alle esigenze dei giovani, degli sradicati, dei diseredati? Oppure questa è la sorte di tutte le civiltà mature, che hanno dato a piene mani i loro beni morali e materiali, ma sono deboli nel difendersi, proprio perché aperte e generose? I corifei della democrazia, come un tempo i santi sulle mura di Roma assediata, ne dischiudono le porte al nemico e ne cantano la rovina; la società attuale sarà ammirata e rimpianta solo dopo che sarà stata distrutta? Nell'una come nell'altra ipotesi è la molla della politica che si è rotta. Quando avremo capito questo ci appariranno anche le vere ragioni della crisi europea e le ragioni perenni di forze che contestano questa democrazia, che non credono a questa Europa delle cancellerie, dalla quale i popoli restano esclusi e assenti.

 

Cesare Pettinato

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