«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VIII - n° 3 - 30 Settembre 1999

 

Un intervento critico sulla posizione da tenersi di fronte alla globalizzazione

 

L'Occidente? Non è solo argomento da salotti

 

 

 

Pensiamo per un attimo ai «colti» intrattenimenti che i quotidiani usa e getta offrono alla ricreazione dei lettori: sprofondati in accoglienti e comode poltrone possono permettersi di leggere le tetre disquisizioni sulla «fine dell'Occidente», sulla «crisi di quest'epoca», sul «domani gravido di interrogativi». Il mondo televisivo fa -come sempre- la sua parte. Gli «intellettuali» e gli «osservatori» si accodano sul tema. Le profezie fanno cassetta.

Su questo scenario fanno ugualmente ingresso le voci -nelle intenzioni certamente anticonformiste- di quella controcultura che un po' tutti noi cerchiamo di sviluppare e trasmettere. La comunità politica che segue questa rivista -alla quale si aggiungono lettori di diversa estrazione ideale- sa del resto che nel nostro caso non è per camparci sopra che ci si diffonde sulla nostra visione del mondo e la realtà geopolitica di fine millennio.

Il contesto dei fatti (e delle oggettive emergenze) va misurato, e con esso deve essere rapportato un nostro punto di vista, una prospettiva di largo respiro. Il profilo dei tempi sul tappeto è troppo importante: le cornici nazionali vacillano, le compagini statuali vengono ristrette dai fenomeni di disgregazione sociale e le popolazioni subiscono mutamenti senza precedenti, connessi ai movimenti demografici.

A questo perverso intrecciarsi di eventi occorre porre dinanzi una propria «interpretazione», in un duplice senso. In prima istanza offrendo cioè una lettura ed una spiegazione delle grandi contraddizioni partorite dagli assetti del dopo-Yalta -tenendo presente che da quel crocevia storico ci stiano sempre più allontanando- ed in secondo luogo reggendo una parte, un ruolo, per articolare il dissenso nei confronti di questo ennesimo epilogo della modernità.

Al centro del discorso si inscrive ricorrentemente il tema dell'Occidente. Anche qui -specularmente- il senso è duplice. L'Occidente è un luogo immateriale nel quale è cresciuta la cultura contemporanea; la «forma mentis» aritmetica, razionalista e mercantile; l'insieme delle tecnologie complesse e degli spiccioli «comforts»: è il sistema capitalistico, liberista, borghese, delle «economie avanzate».

Ma insieme a questo c'è dell'altro. Oltre alle concettualizzazioni esiste una realtà concreta, geografica ed umana, fatta di paesaggi, di linguaggi, di persone in carne ed ossa. lo, tu, noi, le nostre famiglie, i nostri beni, i nostri ricordi, il marciapiede sotto casa, il rione, il lavoro.

Non sono sequenze televisive; non promanano dai proclami universali; prescindono dalle scadenze elettorali; si discostano dai trattati diplomatici. Hanno vita propria e ci stanno accanto indissolubilmente: sono consustanziali, potremmo dire. Queste immediatezze -prima ancora della terza pagina di un rotocalco o della tavola rotonda tra docenti universitari- non sono ristrette nei limiti della gentilezza intellettuale, ma confliggono con la globalizzazione. Rifiutano di affossarsi di fronte all'incombere di quel «monstrum» indefinito e fascinoso tanto decantato dalle cronache inquietanti e decadenti dell'intellighenzia.

Di fronte alla crescente marea di nodi «sociali», di spoliazioni politiche e di stati di crisi legati al concetto di cittadinanza, la sinistra ha scelto. In essa emerge a chiare lettere il compiacimento distruttivo, l'attesa per l'eclissi dei «residui» nazionalistici e lo smarrimento degli innatismi. La sinistra non disconosce nulla ma nega tutto, tutto ciò che va controcorrente, tutto ciò che resta «indietro». La «nostra» polemica è -a volte- troppo tipicamente post-Yalta, legandosi ad un Occidente percepito come sola situazione strategica (certamente estranea) e cioè come Nemico principale: questo, molto francamente, disorienta. Nell'attesa della Fine imminente la vocazione «antagonista» accoglie nel proprio bagaglio -magari in nome di un Fascismo universale- un respiro bucolico. Riuscendo -perché non dirlo?- ad andare d'accordo con Rossana Rossanda, col Sommo Pontefice, con l'ONU.

È il buonismo puro, con il quale la Rivoluzione permanente promette di accontentare ognuno. Europa, Terzo e Quarto Mondo, proprietari e nullatenenti, gente pulita e gente sporca, lavoratori e violentatori. È quel sentimento politicamente corretto e pacifico con il quale si propizia il crollo di questa faccia della Terra, di questo continente che non merita aperture, dialogo o conforto.

Questa mentalità è obbiettivamente infondata. E grazie ad essa si è tracciato uno spartiacque e si sono messe da una parte le vittime del capitalismo, gli incontaminati, i bisognosi. Dall'altra parte siamo stati gettati noi, la nostra storia e le nostre interminabili colpe, le responsabilità dirette dei genocidi, delle pulizie etniche, delle faide esotiche, dell'intolleranza, della fame, della guerra.

È un modo genuino di esprimere una opposizione di principio allo status quo. Ma è un modo sbagliato, deambulante, che rischia di farci andare a braccetto con le Cassandre da salotto, con i post-modernismi ed i situazionisti, con Rifondazione comunista e con gli eterni e ripetitivi assertori del dialogo tra i popoli. Dello sfondo reale questi ideologismi ignorano -e vogliono ignorare- tutto. Disconoscono il vicino di casa, il bisogno di lavoro delle generazioni attuali e future, la possibilità di frequentare con sicurezza e tranquillità i giardini pubblici. Certo, questi esempi sono minimali e minimalisti, ma questi piccoli «fatterelli» possono rappresentare un'istanza, una richiesta legittima che parte dal basso, un valore sociale e politico. L'Occidente, insomma, è anche questo: aspettative ordinarie, elementari, essenziali eppure ancora prive di risposta dal ceto politico, anche da quello non di governo. A farle partire è il paese reale, che magari spesso conosce di fatto gli altri popoli non perché abbia viaggiato all'estero o abbia studiato la carta geografica, ma solo perché assiste ad un'immigrazione senza controllo ed alla recrudescenza del crimine e dell'invivibilità dei centri storici e delle periferie. Ognuno rischia di rimetterci. Certo, il paradigma è di moda: i conflitti nascono dal dominio capitalistico (o neocapitalistico). Ma ogni teoria del Grande Potere, del cannibale economico-militare, per essere resa credibile non può costruire nessuna «isola felix», nessun Mondo incantato che si sottragga alla realtà terribilmente darwiniana, secolare e consuetudinaria delle distanze e delle disuguaglianze.

Nel processo di decantazione e di svuotamento -ineluttabile?- dei popoli d'Occidente non risiede alcuna trasfigurazione o catarsi. Al centro di tutto sta il grande miraggio dei consumi, la pulsione a prendere tutto e subito, a tentare il tutto per tutto considerandolo un diritto. Questo è il veicolo della delocalizzazione di intere popolazioni.

Di questo bisogna tener conto. Poiché sarà necessario scegliere. Per distinguere mentalità nichiliste, disarmate e decadenti e ridefinizione delle identità positive e delle risposte politiche e culturali alle angosce del nostro tempo.

 

Roberto Platania

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