«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VIII - n° 4 - 30 Novembre 1999

 

le interviste di Pierangelo Buttafuoco

 

La serena confessione di Norberto Bobbio

 

Torino. «Un giorno Giorgio Pisanò, incontrando Vittorio Foa, gli disse: "Ci siamo combattuti da fronti contrapposti, ognuno con onore, possiamo darci la mano". Foa gli rispose: "È vero abbiamo vinto noi e tu sei potuto diventare senatore, avessi vinto tu io sarei ancora in carcere". Ecco, ci rifletta. Ci rifletta un istante».

Riflettiamo. Norberto Bobbio scruta ancora un po' l'interlocutore e poi si lascia avvolgere dalla penombra che comincia a velare il suo studio. Se ne va via facendosi scivolare alle spalle la scia della sua gravosa autorità. Quando ancora il pomeriggio aveva appena iniziato la propria discesa nella sera torinese, la conversazione aveva avuto anche un fantasma nel ruolo di padrino cerimoniere, un convitato presto dileguatosi: Ernst Jünger, l'ultracentenario che vide due volte la cometa. «Un grande uomo, una personalità straordinaria». Bobbio sorride pensando ai suoi novant'anni. È l'età della distanza. Aveva tredici anni quando Benito Mussolini arrivava a Roma per consegnare a Vittorio Emanuele l'Italia di Vittorio Veneto. «Lui aveva trentanove anni». Sappiamo tutto dell'antifascismo dei padri, ma non sappiamo nulla del fascismo che precedette il loro antifascismo. «Le dirò qualcosa che forse può sembrare troppo forte». Fa una pausa. «Mi chiede dunque perché fino a oggi non abbiamo parlato del nostro fascismo? Ebbene: perché ce ne ver-go-gna-va-mo». Ancora una pausa, quindi sillaba di nuovo. «Ce ne ver-go-gna-va-mo. Adesso che ho novanta anni, adesso che sono vicino al traguardo io ne parlo.

Non l'ho fatto prima perché me ne vergognavo». «Che cosa fu il fascismo?, fu un'epopea di tragedia e balletto. Il fascismo fu Achille Starace, l'inventore dei saggi ginnici. Mi creda, ne parlo con pietà. Ma fu lui che inventò la formula: "Saluto al Duce, fondatore dell'Impero! Eja, eja, alalà!". Il fascismo movimento era diventato farsesco. Far-se-sco!». A questo punto il professore alza il braccio e recita con la forza della dolorosa caricatura di un catechismo dimenticato: «Saluto al Duce, fondatore dell'Impero! Eja, eja, alalà!». Come in una sovrapposizione dada gli si vede accanto l'altro sé stesso, il ventenne irrigidito nella posa spavalda e marziale. La giovinezza gli si avvampa addosso nei ricordi: «Anch'io comprai l'orbace, ma non l'ho mai indossato. Ho fatto tre viaggi con il GUF, dove mi ero iscritto nel 1927 (gruppi universitari fascisti, N.d.R.), il primo in Libia, il secondo a Budapest, il terzo, quello più d'élite, in Egitto. Erano viaggi senza alcuno obbligo ideologico. Non c'era dottrina, ma vacanza. L'unico momento formale accadde al Cairo quando venimmo ricevuti dall'ambasciatore, un importante gerarca, ma per il resto fu solo vacanza. Ho avuto la tessera del partito dopo l'università, perché il GUF, immetteva automaticamente i suoi tesserati nel PNF (Partito nazionale fascista, N.d.R.). Io non ho mai svolto particolare attività dentro il GUF, il mio fascismo, il mio filo-fascismo familiare, scorreva accanto alla vita di tutti i giorni di uno studente appassionato di studio. Separavo nettamente lo spazio della politica da quello della cultura. Infatti non esiste rigo di quegli anni dove io abbia mai fatto apologia di fascismo, non mi interessavo affatto alla politica e i miei amici, da Leone Ginzburg a Vittorio Foa, tutti antifascisti, mi perdonavano queste mie debolezze. Dicevano: "A Norberto interessa solo studiare e leggere". Non mi hanno mai, mai, considerato fascista. Sì, lo sapevano che ero filo-fascista, ma dicevano: "Bobbio non ha nessun interesse politico". Non esiste comunque frase, non esiste rigo che possa provare una mia qualsiasi complicità con la retorica del tempo».

Quando scrisse «Gonne e colonne» Era la stagione degli universitari che cantavano: «Bocche di porpora ridenti, date amor, date amor, e noi daremo a tutti i venti il nostro tricolor». Era la stagione delle «nude, fredde e squallide stanze» dello studio. Il professore ci ascolta e ride di un ricordo di goliardia: «A quel tempo scrissi con altri amici un libretto di una rivista di varietà. S'intitolava "Gonne e colonne". La musica era di mio cugino Norberto Caviglia. Un gioco frivolo tratto dal romanzetto di un autore francese leggero, una specie di Pitigrilli d'Oltralpe. Si figuri, conquistammo con "Gonne e colonne" il primo premio di un concorso alla cui presidenza c'era Blanc, l'autore di "Giovinezza". Non ne parlo mai volentieri e il libretto, che conservo, è top secret. Il mio fascismo (il mio filo-fascismo familiare) era tutto qui, continuavo a studiare, continuavo a seguire le tappe della mia carriera universitaria. Ero, come posso dirlo?, come posso dirlo senza mascherarmi nell'indulgenza con me stesso?, ero immerso nella doppiezza, perché era comodo fare così. Fare il fascista tra i fascisti e l'antifascista con gli antifascisti. Oppure, e lo dico per dare un'interpretazione più benevola, era solo uno sdoppiamento quasi consapevole tra il mondo quotidiano della mia famiglia fascista e il mondo culturale antifascista. Uno sdoppiamento tra il me politico e il me culturale. Vivevo la mia passione per la filosofia del diritto, seguivo il mio maestro Gioele Solari, integerrimo antifascista, incontravo Piero Martinetti, diventando segretario di redazione della "Rivista di Filosofia". Frequentavo i salotti antifascisti e partecipavo alla fondazione dell'Einaudi nel 1933. Ecco, non mi curavo di quel fascismo progressivo che soddisfaceva le ambizioni di ordine reclamate dalla vecchia destra liberale. La domanda che lei mi fa, "che cosa è stato il fascismo allora", cosa mai sia stato il fascismo di molti intellettuali e politici del futuro antifascismo, ha solo una risposta: sì e no. Sì e no perché la Repubblica è stata fondata da personaggi estranei al fascismo, basti pensare a Leo Valiani. La domanda lascia pensare che il passaggio nel fascismo sia stato un passaggio obbligato. Me lo sono domandato anch'io. Non direi. In fondo c'è stato un fascismo di prima e un fascismo di dopo, dico un luogo comune, lo so benissimo. Ho letto recentemente un articolo di Indro Montanelli dove spiega perfettamente come in realtà il fascismo sia diventato per strada un'altra cosa. Ci sono stati due fascismi, uno di destra e uno di sinistra. Quello dei liberali e quello degli avventurieri. La differenza tra il fascismo dei giovani e il fascismo dei vecchi, secondo me, si riduce a questo: quello dei primi è (se possiamo usare questa parola), rivoluzionario, quello dei padri, invece, strumentale. Questi ultimi volevano soltanto ordine, gli altri un ordine nuovo. Bisogna arrivare al 1932, il punto culminante di questo fascismo primitivo, con il decennale che festeggia il Primato d'Italia con la trasvolata oceanica. Il caso ha voluto che l'anno dopo arrivi sulla scena Adolf Hitler del quale Mussolini, salutato come maestro, diventerà succubo».

La storia di dopo è il precipitato di tragedia. «Ho sempre giudicato il fascismo dal punto di vista dell'antifascismo, ma se si leggono i miei studi sul fascismo, ci si renderà conto della loro obiettività storica. Ho detto: con Hitler al potere la guerra non è più un mito esaltante, ma un preciso programma politico. Anche il fascismo dovette aggiornarsi. Legislatori e filosofi vennero congedati, presero il sopravvento le nuove leve stordite dalla retorica». La tragedia incontrerà l'orrore: «Gli ebrei che erano assimilati in Italia, ce n'erano perfino nella strutture del partito fascista, conobbero la persecuzione, lei lo sa benissimo, come sia finita questa storia non è il caso di ripeterla. Tutto questo spiega perché tante persone che erano state sinceramente fasciste, o simpatizzanti, a un certo punto lo hanno odiato. È stata una catastrofe tale la fine del fascismo che alla fine, noi abbiamo dimenticato, anzi, abbiamo rimosso. L'abbiamo rimosso perché ce ne ver-go-gna-va-mo. Ce ne ver-go-gna-va-mo. Io che ho vissuto "la gioventù fascista" tra gli antifascisti mi vergognavo prima di tutto di fronte al me stesso di dopo, e poi davanti a chi faceva otto anni di prigione, mi vergognavo di fronte a quelli che diversamente da me non se l'erano cavata».

L'età della distanza consente al professore adesso di parlarne serenamente. Altri protagonisti, invece, preferiscono trincerarsi nell'omertà di un silenzio: «No, non è così, per esempio Giorgio Bocca parla tranquillamente del suo essere stato un fascista».

Quando già il pomeriggio si consuma nella prima microcassetta del registratore, negli occhi del professore avanzano altri ricordi che si svelano come in un racconto che fugge dalle pupille. Un fantasma irrompe, Benito Mussolini. «Adesso è facile fare

la caricatura di Mussolini, ma non si deve dimenticare che ha tutti i caratteri di quello che Max Weber avrebbe potuto chiamare il capo carismatico. Era l'uomo che, nonostante le traversie della sua vita, povero quale era, era riuscito rapidissimamente a saltare tutte le tappe. Il più giovane presidente del Consiglio che ci sia mai stato, i suoi discorsi erano secchi, rapidissimi, incisivi. Era aggressivo e rapiva la massa. Non c'è niente da dire, fu tanto capo carismatico da seguire fino in fondo il destino dei capi carismatici: avere sempre ragione fino al giorno in cui, sbagliando, si cade. Quando dichiarò la guerra, non se ne rendeva conto, ma era già finito tutto. Abbiamo visto il Mussolini degli ultimi anni, abbiamo visto il Mussolini con il cappellaccio e il pastrano a Campo Imperatore. Aveva il viso magro, smunto, pallido... e poi finire così, non riuscire a capire quello che gli succedeva intorno in quella notte del 25 luglio, tanto meno poteva prevedere la fine orrenda di Piazzale Loreto. La riprova, una delle poche prove certe che la guerra partigiana è stata una guerra civile. Solo una guerra civile può finire con il capo appeso per i piedi, una guerra fra Stati non finisce così. Fu una guerra tra italiani».

Bobbio ha il peso di una responsabilità, quello proprio dell'autorità morale. Ogni sua parola, adesso, si assesta nella decisione di chiudere l'eterno dopoguerra italiano. Giovanni Gentile: «La mia tesi di laurea era la testi di laurea di un gentiliano. Riguardo alla lapide, non sono assolutamente d'accordo con la decisione del Senato accademico di Pisa, Gentile non merita l'accusa di razzismo, nel momento peggiore aiutò tanti studiosi ebrei». Ogni altra parola, sull'insensato esilio dei Savoia per esempio, fa scuotere la testa importante di questo torinese nel gesto del no, non ha più senso. Non è mai troppo tardi per chiudere gli ultimi fuochi del dopoguerra.

Come se il fascista tra i fascisti, Primo Arcovazzi, lo stralunato milite di Luciano Salce interpretato da Ugo Tognazzi nel film "II Federale", potesse riaccompagnare nel suo sidecar il Professore antifascista, e non per portarlo al confino a Ventotene, ma per andare in quel confino dell'ideale che è la distanza dove nessuno rischia di restare in galera o di diventare senatore e dove le generose sgangheratezze dell'uno nutrono le solidi convinzioni dell'altro. Nell'umanità del dolore, ovviamente, in quella storia dove «dopo non si è più quello che si è stati prima». C'è una scena sublime in quel film, quando nella disperazione della fine, avvampati dalla voglia di fumare, i due attraversano una strada da dove sfrecciano le jeep americane. Per tutto il tempo della pellicola il Professore aveva dovuto salvare i suoi libri dall'Arcovazzi che ne voleva strappare le pagine per rollarsi le sigarette. Stremati, non degnano di uno sguardo i pacchetti di Pall Mall gettati dai soldati USA. Il Professore anzi, ne calpesta furiosamente uno, prende il suo libro di Leopardi, strappa l'Infinito e si prepara una sigaretta: «Tanto, lo conosco a memoria».

Adesso che il pomeriggio è finito, Norberto Bobbio chiede al suo interlocutore: «Vorrei fare anch'io una domanda, quando ho detto che lei sarebbe venuto, i miei amici, i miei amici del mio entourage mi hanno avvisato, "quello è un fascista". Ecco, mi spiega perché è fascista?». Professore, confessione per confessione, io non sono fascista. Sono altro. Ho amato lo scandalo di chi gioca da fascista in questo dopoguerra perché è stata la prospettiva più inedita da dove ho potuto fare altro, diventare altro, per leggere e studiare in orizzonti ad altri inaccessibili. Lo confido così, al grande studioso, non al suo entourage.

 

Pietrangelo Buttafuoco
da "Il Foglio", quotidiano, 12 novembre 1999

 

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