«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VIII - n° 4 - 30 Novembre 1999

 

I dolori del Giovane Gianfranco

 

Forza Italia: Silvio pigliatutto
Alleanza Nazionale: Botta continua

 

 

 

"Sette", l'ebdomadario de "il Corriere della Sera", ha dedicato in uno dei suoi recenti numeri ampi spazi ai rapporti/non rapporti fra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini. Per dare al Lettore una prima idea di cosa si tratta cominciamo col riprodurre, insieme al titolo ("Scommettiamo che quei due ...") alcune più che significative parole ricavate dall'occhiello e dal sommario.

Queste: «Ora, dopo sei anni di unione obbligata, fra stuzzicamenti e pizzicate, sono arrivati sull'orlo dell'abisso». Prima ancora: «Riusciranno Fini e Berlusconi a rimanere uniti?»

Veniamo ora al testo dell'articolo redatto da una preclara firma del quotidiano di via Solferino. Fior da fiore, vi cogliamo brani di analisi e affermazioni il cui peso e, per quel concerne il number one di Alleanza Nazionale, la cui gravità non possono sfuggire a nessuno.

«Quello dialoga con Kohl e Aznar e l'altro è costretto a frequentare il generone romano che è il suo zoccolo duro elettorale. Silvio ha Mediaset e Gianfranco deve accontentarsi di Teletuscolo. Dentro AN c'è pure una fazione di super-berlusconiani che, sotto l'arruffio delle mene antimeridiane, riproduce nel cuore dei militanti la vecchia ossessione del tradimento. Al punto che, con ironiche e calunniose impennate d'orgoglio, la signora Adriana Poli Bortone e il professor Domenico Fisichella sono stati iscritti d'ufficio nell'antico libro-paga, alla voce "trenta denari". Mentre Gasparri, La Russa, Maceratini e Urso sono riguardati come i figli degeneri del partito che con uno stesso colpo di falce recise i legami umani e la fede. Insomma Berlusconi per AN è una tentazione e, dunque, per Fini una dannazione».

Qui Francesco Merlo ci dice, da par suo, ossia il raffinato stile del giornalista di razza, quello che noi, modestamente, già sapevamo, cioè che il Giovin Signore scopritore dell'Antifascismo del Duemila una settimana dopo aver teorizzato il Fascismo del Duemila, è il parente povero del cosiddetto Polo delle Libertà. Per di più, al fine di tenerlo in una condizione di «sovranità limitata» -e, anzi, di nessuna sovranità- il Creso di Arcore gli ha impiantato nel partito una quinta colonna definita, nella vigente vulgata a mezzo stampa, dei «berluscones». Quella che, dopo le batoste rimediate nel referendum di aprile e nelle elezioni europee, gli ha fatto capire senza troppi giri di parole nel corso di una dolorosa sessione del Consiglio Nazionale di essere in minoranza e, quindi, che non gli conveniva andare incontro alla votazione a conclusione di un dibattito che aveva affrontato in veste di imputato. Madrina dell'operazione la signora Alessandra Nipotissima, che dei Mussolini non ha che il nome, ovviamente gestito a livello politico nel peggiore dei modi. Paradossalmente in una chiave «badogliana».

Fini un dannato, dunque. Ma anche un depresso. Vediamo: «Così, a volte, quando Fini cade in depressione, gli pare che qualunque cosa faccia avrebbe potuto fare l'opposto e il risultato sarebbe stato lo stesso, cioè nullo o, peggio ancora, insignificante. E credo che la colpa sia di Berlusconi, l'uomo che l'ha sdoganato ma che un minuto dopo l'ha castrato, condannandolo per sempre a guidare un sottogruppo».

Ha torto, tuttavia, l'ex-pupillo di Giorgio Almirante a lamentarsi. Quando si verifica una «castrazione», per usare il perturbante immaginario merliano, c'è chi castra e chi si fa castrare. Non è vero che Gianfranco Fini fosse con le spalle al muro, che non avesse la possibilità di fare una scelta diversa da quella di essere prigioniero in una altrui gabbia dorata. Doveva capire che se lui aveva bisogno del Cavaliere, il Cavaliere aveva, a sua volta, bisogno di lui. Pertanto, poteva porre delle condizioni per l'alleanza, anzitutto di tipo «nazionale» e di indole «sociale», anziché mettersi a raccontare miserabili sciocchezze sulla sua presunta conversione all'antifascismo e alla liberaldemocrazia. Ma qui casca l'asino, non quello di Prodi, ovviamente. Gli è che il Fini non era in grado di ciò fare essendo egli un fottuto reazionario peggio di Berlusconi; ed un ancor più fottuto lacchè psicologico e politico degli USA e del loro progetto di egemonismo integrale esattamente come lo è il Paperone arcorano. A dirla tutta, dunque, vengono in evidenza come uno degno dell'altro. E il fatto di essere il Gianfranco la copia conforme del Silvio rende impraticabile il divisamento di una presenza più ampia, di un ruolo sempre più significativo, di una operatività sempre più diffusa e marcata anche sul piano elettorale, di Alleanza Nazionale e del suo leader (ma per quanto ancora?). Infatti a parità di impostazione ideologica, di piattaforma programmatica, di discorso politico complessivo il grosso dell'area votante che fa riferimento al Polo sceglierà sempre la formazione più forte, più ricca, più e meglio collegata a livello internazionale tramite la presenza nel Partito Popolare Europeo, più accetta a Washington, mentre Fini da anni fa anticamera nel Mediterraneo giacché perfino la destra israeliana non intende dargli confidenza. È questo, del resto, ciò che si ottiene comportandosi come un postulante importuno, seccatore, indiscreto. Come reagisce il Sopracciò di Arcore ai dolori del giovane Gianfranco? Ancora una volta è il Merlo a cantare: «Dall'altra parte Berlusconi pensa che Fini sia un ingrato, non diverso da tutte le altre zucche che egli, il Berlusconi, ha trasformato in principi».

E riproduce pari pari una battuta all'acido prussico di Sua Emittenza: «Fini si è candeggiato, era un cavaliere nero su un cavallo bianco, ora è diventato un cavaliere bianco su un cavallo nero».

Capita la frecciata del Pigmalione meneghino? Prima della cura il fascista Fini era ancora fascista ed era più che mai Fini. Dopo la cura candeggiativa Fini non è più fascista bensì antifascista e, soprattutto, non è più Fini ma Fininvest. Il quale, tuttavia, cavalca un partito che, stringi stringi, sarebbe ancora fascista.

La nostra opinione diverge, more solito, da quella del proprietario del partito-azienda. Fini fascista non lo è stato mai, anche se, col favor delle tenebre e al riparo dell'usbergo intransigentista di Giorgio Almirante, si professava tale per fare carriera. Quando uno si mette in politica solo perché un gruppetto di gruppettari fessi gli ha impedito di vedere un mediocre filmetto americano sulla guerra nel Vietnam interpretata dall'attore maccartista John Wayne, non è né fascista né antifascista, è soltanto un bischero, come si dice nella dolce Toscana, culla della lingua italiana. Quanto poi al partito, non è né bianco, né nero, né giallo, né turchino. È solo grigio, di un grigiore da fare spavento. Non potrebbe essere diversamente, visto e considerato che nell'atto di nascita c'è scritto che è stato messo in culla a Fiuggi nel gennaio del '95 o giù di lì; e pertanto è un partito di soli Fiuggiaschi in fuga davanti alla loro fu identità. Di più: vi è attestato che fra i fondatori non vi sono un Giorgio Pini, un Bruno Spampanato, un Bruno Ricci, un Angelo Tarchi, un Manlio Sargenti, un Ugo Clavenzani, un Olo Nunzi e, per quel che più direttamente ci riguarda, un Beppe Niccolai. Vi figura, viceversa, un limitato collettivo di scartine della corrente reazionaria della Democrazia Cristiana; qualche evaso dal Partito Socialista Inquisiti, ossia il PSI nella peggiore versione craxiana; e, dulcis in fundo, l'onorevole Senatore Professor Domenico Fisichella, cioè una delle poche persone molto più che decenti e assolutamente presentabili e rispettabili dell'establishment alleanzista, tuttavia distante trilioni di anni luce dalla tradizione a suo tempo incarnata dalle personalità appena nominate.

Per soprammercato, si annota che riteniamo l'Assemblea fiuggiasca della metà Anni Novanta convocata solo per dare una qualche formale legittimità alla «svolta» fatta alla svelta da una manciata di rinnegati di lusso, null'altro che un aggregato di plagiati, di autosconfitti, di venticinqueluglisti in ritardo di mezzo secolo, di tentati dalle leccornie del governo e del sottogoverno, di gente priva di spirito rivoluzionario, di rinunciatari senza fede e senza voglia di battersi.

 

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Errori strategici e complessi di Fini balzano da questo ulteriore passaggio della prosa merloniana: «Esibiscono così, tra diffidenze e paure, tutta l'infelicità di un'alleanza obbligata. Fini, che vanta in politica una saggezza disincantata non sopporta l'alleato pieno di grazia e di frizzi. E perciò confessa un sogno: vorrebbe vincere le elezioni, fosse solo per tornare a vedere Fedele Confalonien ossequioso nei miei confronti, proprio come lo è, adesso, nei confronti di D'Alema". Ogni tanto i giornali tirano fuori dagli archivi l'intero repertorio di questa sofferenza, l'arruffio di dichiarazioni, tutte le parole di un accordo politico e umano fon­dato sul sospetto».

È da oltre un lustro che ci chiediamo perché mai Gianfranco Fini sente come «obbligata» l'alleanza con lo spazio azzurro. Non è vero che la connotazione dello scacchiere politico italiano lo «ricatta». Egli è «ricattato», invece, dall'errore almeno cinquantennale del MSI prima e di Alleanza Nazionale poi di voler definirsi di destra, di voler essere di destra. (Con Almirante la confusione ideologica e, conseguentemente, di comportamento e di linguaggio era giunta al diapason, per la pretesa tutta sincretista di voler coniugare la destra con i suoi esatti contrari: la Repubblica Sociale Italiana e il fascismo-movimento di defeliciana memoria).

Il Movimento Sociale Italiano, a nostro giudizio, avrebbe dovuto «saltare» le etichette di destra e sinistra -cosa significano oggi?- per proclamarsi partito rivoluzionario, popolare, nazionale, sociale, socializzatore, pacificatore. E, se ciò non aveva fatto nonostante le pressioni in tal senso poste in essere, per esempio, da un Niccolai, avrebbe dovuto farlo Alleanza Nazionale; che, forse, potrebbe ancora essere in tempo e in grado di correggere la sua grave, pesante erranza genetica una volta consumato, come ci auguriamo, il rapporto sinergico con Forza Silvio.

Ora però evitiamo il rischio di perderci nei labirinti dell'ipotetico e soggiungiamo che, forte di questa identità, Fini avrebbe potuto rivolgersi a tutto indistintamente l'arco politico chiedendo quale o quali partiti erano disposti a far propria una congrua componente della programmatica elaborata alla luce dei supposti princìpi e, ottenuta questa o quella disponibilità, procedere conseguentemente e coerentemente alla stipula di durevoli accordi.

Non stiamo dando i numeri. Abbiamo già detto che se Fini aveva bisogno di Berlusconi per, come suol dirsi, sdoganarsi, altrettanto vero è che il Cavaliere non poteva fare a meno del patto elettorale con un partito come il MSI-AN diffuso e radicato sul territorio quando Forza Silvio era ancora in fasce. Sic stantibus rebus, come non prevedere l'accettazione da parte del conservatore e reazionario Berlusconi, e sia pure obtorto collo, di immettere nella proposta elettorale del Polo quelli che piace a noi chiamare «elementi di socializzazione»? Il locupletato milanese/milanista non ci sarebbe stato? Avrebbe potuto, il Nostro, puntare allora sul fronte avversario. Indoviniamo l'obiezione: questi della sinistra (vera o presunta, diciamo noi) sono intrattabili; pretendono abiure in continuazione, hanno la puzza sotto il naso, mai e poi mai accetterebbero di congiungersi agli existi missini e neo-alleanzisti con un organico vincolo di alleanza.

Tale eccezione avrebbe avuto un innegabile fondamento di veridicità fino alla segreteria pidiessina di Achille Occhetto, ingloriosamente finita nella polvere come ognun sa, nell'estate del '94 dopo due flagellanti profligate elettorali. E finita, absit iniura verbis, anche nel ridicolo, avendo «baffo di ferro» dichiarato, urbi et orbi, all'inclita e alla guarnigione, di avere approntato per una vittoria considerata virtualmente acquisita addirittura una «gioiosa macchina da guerra».

Occhetto era in realtà un uomo di affocati sentimenti e risentimenti. Era un intellettuale di cultura azionista. Era, cioè, un uomo fazioso, aggressivo, intollerante, vendicativo; e, come tutti gli azionisti, persuaso che fino alla consumazione dei secoli il mondo non poteva che risultare diviso in fascisti e antifascisti. Altra musica, invece, Massimo D'Alema. Insediato sul soglio segreteriale, disse di «voler pacificare l'Italia». Inviò una qualificata delegazione al congresso di Fiuggi, cosa di cui non gli siamo affatto grati ma pur sempre dimostrativa di una volontà di distensione, di disinfestazione della coscienza nazionale dai veleni e miasmi della guerra civile. L'odore del sangue fraterno versato per mano italiana, insomma, non gli era gradito. Tanto da concertare con il Presidente della Camera dei Deputati on. Luciano Violante, in avvio della presente legislatura, il discorso inaugurativo, dei lavori parlamentari fondato anche sulla postulazione di comprendere motivi ed esigenze spirituali che indussero i «ragazzi di Salò» alla scelta dell'adesione alla Repubblica Sociale Italiana.

Infine, nel caso in cui ambedue gli schieramenti non risultassero agibili, nulla impedirebbe alla nomenklatura di Alleanza Nazionale di indirizzare il partito verso un ruolo di opposizione indipendente, creativa, dialogicamente multilaterale. In fin dei conti, non glielo ha ordinato il medico di far parte di una maggioranza governativa.

 

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Nel procedere di questa crestomazia merliana punteggiata di spunti conflittuali fra i due carissimi nemici del «polismo» non tardiamo a renderci conto che i dardi polemici e sardonici non di rado tracimano l'ambito individuale dei duellanti per investire i partiti come tali. Vediamo: «Sono centinaia le battutine malevoli subito rimangiate o corrette da un sorriso. Fini è arrivato a definire Forza Italia il "partito degli imputati" e Berlusconi disse che AN era "zavorra per il Polo". Ci sono pure un "dove va quello li senza di me?", e uno speranzoso "adesso Berlusconi potrebbe non essere più il leader del Polo". A ciascuna frase appuntita ne corrisponde ovviamente un'altra di forza uguale e contraria. È un perenne mal di stomaco curato con gli antiacidi, un livore trattenuto, un'acrimonia repressa, un'ostilità mortificata...»

Inoltre: «Non hanno scelto loro di essere quello che cono, due alleati in scala gerarchica: sono solo posseduti da una necessità politica e non possono farci nulla. Fini, del resto, ci aveva pure provato ma è stato sconfitto. Fondò l'Elefante, una vera e propria aggregazione di centrodestra, sostanzialmente alternativa al Polo delle Libertà, con Mario Segni e Marco Taradash. E progettava di coinvolgere anche i radicali di Marco Pannella e di Emma Bonino. Tutta l'Italia capì che si trattava finalmente della prima, vera, concreta sfida al rivale Berlusconi».

Ma quale sfida può mai Gianfranco Fini lanciare a Silvio Berlusconi se ha commesso, fra tanti altri, l'immane errore di accettare che il fondatore di Forza Italia assumesse il titolo, il ruolo, i compiti, le prerogative, gli oneri e, ciò che ha un significato rilevante, gli oneri di leader del Polo delle Libertà? Un leader è un leader. E se lo è davvero -come lo è, il Cavaliere Azzurro- vuol dire che comanda lui. Pertanto, se cacicchi e sudditi si rivoltano, lui ribadisce l'ordine senza colpo ferire, anche con l'ausilio decisivo e non certo disinteressato dei «berluscones» di Alleanza Nazionale, magari insufflati per la contestazione antifiniana dalla pasionaria Signora Mussolini, tanto più vogliosa di protagonismo in quanto consapevole di essere, a livello di verità effettuale, una clandestina a bordo nel «Transatlantico» di Montecitorio, avendo gli elettori di Napoli fatto finta di suffragare Alessandra mentre in realtà votavano per Benito.

 

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Il perfido capataz azzurro spesso e soprattutto volentieri mena il can per l'aia, fa il nesci e al contempo lo gnorri. Sempre stando al brillante redattore del "Corsera" egli «invece finse democristianamente di cadere dalle nuvole e recitò la parte dell'offeso, dell'amico tradito, del socio raggirato: "Sento dire di un'alleanza di Fini con Segni. Ma non sono queste le informazioni che mi aveva dato Gianfranco". E infatti, quando l'Elefante venne umiliato dagli elettori che premiarono Forza Italia, Berlusconi fu prono a ricambiare: "Non ho chiamato Fini e penso che dovrò far passare un po' di tempo. Lo capisco: le sconfitte bruciano"». Di certo Gianfranco toccherebbe il cielo con un dito se gli riuscisse di essere più Fini e sempre meno Fininvest. Ma non ce la fa: si sente schiacciato, con le spalle al muro, messo nell'angolo. In trappola, insomma. Né potrebbe essere diversamente, del resto, avendo sbagliato tutto: identità culturale, profilo ideologico, collocazione nella società, connotazione storica, contenuti programmatici, alleanze sociali e politiche, strategia, tattica. Dopo la drammatica sessione del Consiglio Nazionale post-elettorale ha finalmente capito che non è più padrone nemmeno a casa sua, dove comanda Berlusconi tramite i suoi proconsoli, fra i quali, più di tutti, strilla la Mussolini, più che mai politicamente indegna del nome che porta. Un Berlusconi, dunque, che ha ormai fatto sua tutta la posta.

Morale della favola: chi badoglianamente agisce (a Fiuggi) badoglianamente perisce (nel cosiddetto Polo delle Libertà).

Il Nostro, quando può, quando ritiene di potersi fidare di qualcuno, si sfoga, si lascia andare, la mette sul confidenziale. Dice sempre Merlo: «A volte Fini confida ai suoi che c'è un'intima, invincibile coincidenza di Berlusconi con l'intero Polo delle Libertà e si spinge a fantasticare, come l'Antonio di Shakespeare faceva con Bruto, che "se io fossi Silvio e Silvio Gianfranco, ci sarebbe adesso Gianfranco...": insomma Fini nei panni di Berlusconi cercherebbe di liberarsi da Fini».

Chiosa l'articolista: «Una battaglia aperta del Centro contro la Destra gli restituirebbe l'antica passione, il gusto della lotta, il piacere di un ritorno alla politica di sempre, che non è il supplizio di un'inimicizia che non riesce ad esprimersi compiutamente».

Ma, egregio dottor Merlo, perché mai il Centro (quello del Polo, va da sé) dovrebbe scatenare le ostilità contro la destra se ormai dentro la medesima il doviziosissimo Personaggio domiciliato in quel di Arcore è in grado di fare il bello e il cattivo tempo, grazie al combaciare di due fattori: la dabbenaggine del Signor Gianfranco Fini, il quale dopo quel puttanaio cripto-badogliano di Fiuggi credeva di essere diventato Napoleone Bonaparte e il nuovo tradimento dei «berluscones» -chi lo fa l'aspetti- che hanno occhiutamente messo in mutande il loro presidente per meglio annegarlo nell'oceano di miliardi, di ville hollywoodiane, di strutture mediatiche, di trofei calcistici dell'uomo più ricco del mondo, del vero capo del capitalismo italiano, di uno dei massimi esponenti di quello mondiale?

 

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Marx diceva che nella storia un evento viene in evidenza due volte: prima come tragedia e poi come farsa. Se pensiamo a ciò che è capitato al Bolognese di Marino durante la sessione post-elettorale del Consiglio Nazionale ci punge vaghezza dare ragione al bisnonno dei comunisti. Infatti quell'avvenimento racchiude tutte le caratteristiche di un venticinque luglio formato tascabile -il secondo, a vero dire, il primo essendo da individuare nella famigerata assemblea di Fiuggi, innegabilmente più serio e importante pur nella sua ignominia-: un venticinqueluglismo da operetta, da caffè concerto, da avanspettacolo. Onorevole Gianfranco Fini: si ricordi che una redenzione vita natural durante è sempre possibile, anche se molto, troppo ritardata. Cerchi allora di darsi una regolata per non ridursi proprio all'ultimo momento.

Tanto più che l'esimio Cavaliere le sta già facendo suonare le campane a morto a mezzo stampa. Vediamo cosa dice, per esempio, l'impareggiabile Vittorio Feltri, la più illustre lancia spezzata dell'impero mediatico berlusconiano: «Alle prossime elezioni credo che i due arriveranno insieme. Ma il futuro non è affatto scontato. Se Berlusconi continua a coltivare la sua strategia centrista io non ritengo improbabile una futura alleanza fra Forza Italia e Democratici della Sinistra. In questo caso si profila un quadro in cui le ali estreme vengono isolate e per Fini sarebbero guai. Il problema storico della Destra è questo: oltre il 10-15 per cento non riesce a crescere e la condizione di alleato minore gli va stretta, il risultato è una conflittualità vera che indebolisce il Polo.» Osserviamo noi: è proprio per evitare una conflittualità dissolutrice che Berlusconi ha iniziato alla grande l'operazione diretta a includere Alleanza Nazionale nella sua campagna acquisti. È noto che per lui, a livello di mercato, nulla differenzia partiti, pezzi di partito, singoli politici dai calciatori e dai divi dello spettacolo.

A sua volta Gianni Baget Bozzo, prete arruffone intrallazzatore e politicante, buono per tutti gli usi e tutte le stagioni, attualmente in servizio permanente effettivo presso il Despota di Arcore, così esterna: «Ma la sconfitta di Fini alle Europee ha affondato ogni speranza di aggiramento di Forza Italia. Il centro è presidiato da Berlusconi, Fini deve mettere da parte le sue ambizioni di leadership ...»

Breve, succinto e compendioso. Ed ecco ciò che ce ne dice Lucio Colletti, ex testa d'uovo della frazione di sinistra filogruppettara del PCI, passato con armi (poche) e bagagli (molti) nelle folte schiere del Supremo di Mediaset: «La diffidenza tra i due nasce da due motivi: Fini non può rassegnarsi alla virata centrista di FI. Gianfranco avverte questa strategia come un tentativo di fiaccare AN e di ridurne la resistenza. Quanto a Berlusconi, credo che abbia in tasca qualcosa come il controllo di una vera e propria corrente di AN. È vero che oggi nessuno può permettersi di sbarcare l'alleato, ma alla lunga le ruggini si faranno sentire e la competizione fra i due, anche personale, sarà inevitabile».

Come volevasi dimostrare.

Mirko Tremaglia, l'amerikano per antonomasia, coglie un solo aspetto della verità, e neppure il più importante: «Solo se Berlusconi pensa di recuperare come se niente fosse tutti i vecchi rottami del Pentapartito, i Pomicino, i De Michelis, i Cicchitto, i Vizzini, per intenderci. Questo Fini non lo può digerire».

Ancora una volta l'Amerikano di Bergamo ha perso una eccellente occasione per tacere. A parte che il suo amato Gianfranco si è da tempo rivelato un fuori classe, un artista nella specializzazione dell'uso e consumo della rottamazione pentapartitica -basti pensare ai Publio Fiori, ai Gustavo Selva, ai Massimo Pini, ai Mario Segni, etc. etc.- stia certo che pur di restare in qualche modo sul mercatino della politique politiciénne egli sarà disposto a «digerire» ben altro che la presenza in un partito reazionario quale quello di Berlusconi di un pugno di democristiani o di socialisti dal duro comprendonio e dalla elastica spina dorsale.

Più attenti, calibrati, qualitativi i giudizi messi in campo oltre la schiera polista. Di particolare acutezza e notevole interesse questo del repubblicano Giorgio La Malfa: «Berlusconi configura il suo movimento come una nuova De e rivendica addirittura una eredità del Pentapartito. In questa prospettiva il distacco da Fini è scontato. Forza Italia ha un interesse crescente ad accentuare le distanze: i tempi dipendono solo dalle ambizioni di Berlusconi. Con il proporzionale, la rottura ci sarebbe già stata».

Infine Pino Rauti: «Il conflitto si è risolto con la disfatta strategica di Fini. È stato usato, ha avuto il suo momento magico, ma ora è sul viale del tramonto; e la clamorosa batosta delle Europee gli ha dato il colpo di grazia. Il problema non sono gli errori di AN: è Berlusconi che è cresciuto, tirando fuori capacità di manovra, resistenza, senso politico. Dove va Fini, ora che ha esaurito la spinta propulsiva dell'abiura di Fiuggi?»

Sopravvalutazione di Berlusconi a parte -che senza la valanga di denaro e di apparecchiature mediatiche di cui dispone sarebbe un Signor Nessuno- l'interpretazione rautiana della vicenda Fini pare a noi centratissima.

 

Catilina

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