«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VIII - n° 4 - 30 Novembre 1999

 

La guerra fredda continua

 

 

 

Sembrava ovvio e automatico che con il crollo dell'URSS dovesse coincidere la fine della guerra fredda. Ora è sempre più evidente che la guerra fredda continua, in forme diverse, ma con non minore intensità. Anzi, per una specie di capovolgimento della prospettiva storica, si direbbe che è la guerra fredda di oggi, per i suoi moventi e le sue manifestazioni, che getta luce e spiega i meccanismi nascosti della guerra fredda del passato, non l'inverso, come finora è sembrato. In altre parole, ora che i rinascenti attriti che dividono il mondo non possono più essere imputati alla diversità dell'ideologia o a quella del sistema politico-economico, incominciamo a chiederci se le ragioni accampate dall'Occidente per una mobilitazione armata che per mezzo secolo ha tenuto il mondo sull'orlo di una terza guerra mondiale fossero davvero quelle dichiarate, cioè la difesa delle libertà democratiche e della economia capitalistica, e se il crollo del mondo sovietico sia stato davvero l'effetto di un errore del sistema o non più semplicemente di una minor disponibilità di mezzi materiali, in una gara di armamenti che assorbiva tutte le risorse necessarie allo sviluppo. La rivelazione si è avuta su due piani diversi, ma convergenti, quando il conflitto balcanico si è rivelato per quel che in realtà è, un conflitto americano-russo, e quando in Europa orientale e nella stessa Russia gli ex-comunisti hanno recuperato una adesione popolare più estesa e radicata del previsto.

Non solo in seguito alla vicenda recente del Kosovo, ma fin dallo smembramento della Jugoslavia -subito avviato all'indomani della caduta dell'URSS, con la reintegrazione violenta della Slovenia e della Croazia nell'area di predominanza tedesca, con la conseguente espulsione dei serbi dalla Krajna e da gran parte della Bosnia, e con l'accantonamento della Macedonia in un area di precario equilibrio, fra Bulgaria e Grecia-, è emerso chiaramente quale sia la struttura del potere e delle complicità che ingabbia l'attuale Europa e che conduce il gioco balcanico. Gli accordi di Dayton hanno consentito alla Germania di allargare e consolidare la propria influenza nell'Europa centro orientale, mentre il conseguente isolamento della Francia rendeva inevitabile la complessiva acquiescenza europea. Gli Stati Uniti ottenevano così una prima copertura al loro programma a lungo termine tendente a far arretrare la presenza russa prima nell'Europa centro orientale, mediante l'allargamento della NATO a Polonia, Cekia e Ungheria e, in immediata successione, grazie ad una ripresa della metastasi jugoslava. L'apparente stabilizzazione della Bosnia-Erzegovina, ottenuta con la copertura dell'ONU e della NATO ad una spartizione di fatto, conclusasi a tutto vantaggio della Croazia, ha prodotto quella fase di apparente tranquillità che era necessaria per preparare la seconda fase dell'operazione, consistente nel distacco del Kosovo dalla Serbia. Vi è stato un tragico concatenamento fra l'organizzazione e l'armamento dell'UCK da parte degli americani, allo scopo dichiarato di porre in essere un Kosovo mussulmano indipendente, la «pulizia etnica» serba, l'offensiva aerea NATO sulla Serbia. Ognuna di queste azioni ha interagito sull'altra, sia provocandola, sia inasprendola. Ma nella ricerca del movente primo, è difficile ritenere, data la sproporzione delle forze, che la Serbia potesse realmente mirare, come la si accusa, a un ingrandimento o tanto meno a una egemonia nei Balcani, né che a tanto fosse spinta dalla Russia. Vien più agevole pensare che -scomparsi Tito e il comunismo-, la Serbia lottasse per la sopravvivenza della Jugoslavia, mentre l'obiettivo americano era e resta quello di una drastica riduzione della Serbia, anche a costo di distruggere il legame che solo essa ha tradizionalmente rappresentato fra gli slavi meridionali.

Obiettivo che va ben oltre i Balcani per investire l'intero assetto mondiale ed europeo. Così come il primo cinquantennio di guerra fredda è stato il prodotto della divisione e della subalternità dell'Europa, le insorgenze di questa seconda fase di guerra sotterranea rivelano che la posta in gioco è se e quale sarà l'Europa nel prossimo futuro. Infatti, l'ampliamento dell'Europa a sud-est, se e quando avverrà, può dar luogo ad una Europa radicalmente diversa, a seconda che esso venga condizionato da un'ottica NATO, cioè imperniato sull'adesione turca -e forse anche, come prospetta Massimo Fini, sulla creazione di un cuneo mussulmano, puntato al cuore dei Balcani, dalla Turchia alla Bosnia, attraverso la Macedonia e il Kosovo, in funzione antieuropea-, oppure realizzato con il pieno recupero di una Serbia ricostruita e con la partecipazione russa. Nel primo caso si avrà la perpetuazione di una Europa americana, assediata dal blocco anglosassone e ingessata dal direttorio franco-tedesco, nel secondo caso l'alba di una possibile Europa indipendente, paritetica, posta responsabilmente di fronte alla alternativa di un definitivo disfacimento o di una libera e diretta autodeterminazione dei suoi popoli, sola via per realizzare un equilibrio senza egemonie e senza intermediazioni burocratiche o tecnocratiche, cioè un vero federalismo.

Se l'obiettivo americano non è stato per ora interamente raggiunto lo si deve alla opposizione russa e alla saldatura di questa con le diffuse reticenze europeo-continentali. La mediazione di Cernomirdin ha condotto alla cessazione delle ostilità, e al raggiungimento di un equilibrio, che però, all'atto della occupazione del Kosovo, sarebbe subito saltato senza il blitz delle truppe russe su Pristina. Quanto la presenza russa riuscirà a salvare della popolazione serba nel Kosovo è difficile prevedere. Quel che conta è aver chiaramente presente che la Serbia distrutta, come l'Irak affamato, sono due fronti della stessa guerra, che si dice fredda solo per eufemismo. In ambedue i casi, gli Stati Uniti hanno dovuto fermarsi perché un passo più in là era guerra non più fredda. Hanno dovuto richiamare il generale Wesley Clark, quando questi stava per scatenare contro l'intervento russo una reazione che avrebbe avuto conseguenze fatali. E in seguito ad un passo azzardato del tribunale penale internazionale dell'Aia stava succedendo qualcos'altro di simile. L'incriminazione di Milosevic è stata notificata all'interessato dal procuratore della sezione del Tribunale che si occupa della Jugoslavia, la canadese Louise Arbour, proprio nel momento in cui il mondo intero era sospeso nell'attesa che la mediazione russa, sollecitata e contrastata al tempo stesso dalle diplomazie occidentali, consentisse di por termine ad una guerra sanguinosa. Quella mossa fu soltanto l'effetto di un eccesso di zelo della Arbour o non fu di proposito istigata dalla volontà di spingere a fondo e vincere la prova di forza?

La immediata sostituzione della Arbour ha di fatto ristabilito i reali rapporti fra la giustizia internazionale e la politica internazionale. Ma al tempo stesso, per non contraddire il nuovo mito di una nascente giustizia globale, al momento del commiato della Arbour la stampa internazionale ne ha esaltato i meriti e il dinamismo. Sotto il suo mandato, il TPII avrebbe superato un punto di non ritorno, passando dal principio della cooperazione volontaria fra gli Stati a quello di una obbligazione cogente. La «decisione cruciale», ha ricordato la Arbour, è stata presa nel corso del processo al generale croato Blaskic, quando i giudici hanno deciso in appello che il Tribunale ha il potere di «costringere» gli Stati». Abilmente, l'esempio ricordato riguardava la Croazia e non la Serbia. Nella stessa occasione, però, la Arbour ha rivelato un altro aspetto interessante e poco noto: «Le ricompense finanziarie offerte dagli Stati Uniti per l'arresto dei criminali di guerra sono un fattore di riconsiderazione della nostra strategia. Stiamo discutendo (sic) della eventuale pubblicazione di uno o parecchi atti segreti ...» In cauda venenum... Ed ha concluso, a mo' di avvertimento al successore: «Il procuratore può dover prendere delle decisioni impopolari presso i governi e così farsi dei nemici potenti».

Poiché l'ONU escludeva dalla successione tutti i candidati dei paesi NATO -evidentemente parte in causa, e come tali soggetti, in Consiglio di Sicurezza, all'eventuale veto russo o cinese-, il governo svizzero ha colto l'occasione, ai primi di agosto, per proporre come successore della Arbour il proprio procuratore generale, Carla del Ponte. Perché proprio la Svizzera offriva l'alternativa più opportuna? Forse perché, negli stessi giorni, il 13 agosto, doveva essere arrestato a Berna, per il furto di una decina di miliardi, un ex-contabile dei servizi di sicurezza dell'esercito elvetico. Questi si è difeso chiamando in causa i suoi superiori. Il 22 dello stesso mese, il capo dei servizi è stato messo a riposo per consentire alle indagini di procedere. Il ministro della difesa ha dichiarato alla stampa che l'affare in questione, svelato da un banale caso di corruzione, costituisce in realtà una delle truffe più gravi che mai si siano verificate nell'amministrazione svizzera, e che potrebbe assumere «dimensioni inimmaginabili». Ha infatti riconosciuto che le voci diffuse dalla stampa, di deposito e traffico d'armi con connessioni balcaniche, di criminalità organizzata, di forza armata segreta, hanno fondamento. Centinaia di armi e munizioni sono state sequestrate.

Sempre negli stessi giorni, inaugurando la sua nuova attività, la Del Ponte doveva scatenare contro i dirigenti russi una violenta campagna accusatoria. Al tempo stesso, una analoga campagna partiva dagli Stati Uniti, con enorme rilievo giornalistico e televisivo. Battage nel quale un quotidiano italiano si è assunto la parte di mosca cocchiera. Così, lo scandalo bernese rientrava nell'ombra e si apriva un nuovo fronte dell'offensiva anti-russa. Il teatro di questa offensiva psicologica, che si dichiara «moralizzatrice» della politica russa e della finanza mondiale, è complicato e smisurato. Ai motivi di politica internazionale si mescolano tensioni di politica interna legate alle prossime elezioni, presidenziali in America, politiche in Russia. Le traversie della politica di sostegno a Eltsin servono ai repubblicani per attaccare l'amministrazione Clinton-Dole, e in campo democratico offrono armi al candidato Bradley contro Dole. Le carte di credito di Elena e Svetlana in Svizzera servono al sindaco di Mosca per attaccare Eltsin. Ma questa non è altro che l'ennesima prova che le strutture governative e parlamentari, e le ideologie per le quali o contro le quali esse si schierano, altro non sono che la copertura superficiale dell'operare di altri organismi mediante i quali si esprime, permanentemente e oscuramente, la volontà di potenza dei grandi Stati. La scelta della via radicale della privatizzazione e della liberalizzazione, la scelta di Eltsin, è pur stata salutata dall'occidente capitalistico come garanzia della vittoria conseguita sul sistema sovietico. La trasformazione dei boiardi dell'economia di Stato negli oligarchi del disordine economico di oggi era forse la sola via possibile per la formazione di una nuova classe dirigente. Che non è in sé peggiore di ogni altra classe dirigente capitalista, ma ha sopra di sé ancora troppo deboli lo Stato e la legge, mutati radicalmente nei princìpi e nelle strutture. La mobilità dei capitali, perpetuamente in cerca degli investimenti più sicuri e lucrativi, è l'ultima cosa che l'Occidente possa rimproverare al neocapitalismo russo. Se parte dei fondi del bilancio o provenienti da finanziamenti esteri sono stati utilizzati per sostenere il sistema bancario e il corso del rublo ed hanno poi preso la via delle banche occidentali, che vi avevano anch'esse il loro interesse, ciò era probabilmente inevitabile conseguenza della crisi di trasformazione del sistema sovietico. Se mai, errori più che frodi. Il sospetto, sollevato e strombazzato dalla stampa internazionale prima che sia provato dalle inchieste giudiziarie in corso in Europa e in America, è che fra i capitali riciclati dalla Banca di New York vi sia parte dei finanziamenti concessi in passato dal Fondo Monetario alla Russia. In proposito, Michel Camdessus, direttore Generale del FMI, ha respinto l'interpretazione distorta di cui è stato oggetto il rapporto Audit della Pricewaterhouse Coopers sulle operazioni della Banca Centrale Russa e della sua filiale FINACO. Mentre la stampa internazionale ha affermato che secondo tale rapporto questa filiale speculava nell'interesse degli oligarchi al potere, in realtà il testo, pubblicato su Internet, non afferma nulla di simile. Al contrario, secondo Camdessus, è stata accertata l'inesistenza di deviazioni di fondi provenienti dal Fondo. Il consiglio dato dal Fondo di accrescere le risorse del bilancio, aumentando la tassazione dei grandi monopoli, al fine di rivalutare i salari, l'assistenza sociale e le pensioni, avrebbe trovato accoglimento nella decisione del governo russo di rivalutare la spesa sociale sulla base di una inflazione del 50% nell'anno in corso. Il Fondo monetario afferma di aver contrattato i prestiti in base all'impegno di riforme che sono realmente in via di attuazione. D'altra parte, afferma Camdessus, pur non svolgendosi in condizioni ottimali, tali prestiti hanno come alternativa lo strangolamento, la bancarotta e l'isolamento della Russia. Le considerazioni che precedono non bastano a scagionare la dirigenza russa, ma provano l'esistenza di una ostilità internazionale pericolosa. La campagna di accuse al neo-capitalismo russo ha assunto il carattere e le dimensioni di un linciaggio politico e morale della Russia.

Il fenomeno del denaro sporco e del suo riciclaggio dura e fiorisce da decenni. La massa del denaro proveniente da attività criminali -traffico di droga, armi e prostituzione, frodi fiscali, corruzione-, non fa che ingigantire. Nel febbraio scorso, in una conferenza tenuta a Praga, il consulente bancario specializzato nella lotta contro il riciclaggio, David Bickford, ha stimato il denaro sporco in mille miliardi di dollari l'anno nel mondo e un centinaio nella sola Europa. La liberalizzazione dei movimenti dei capitali ha negli ultimi anni ingigantito il fenomeno, che si giova degli innumerevoli paradisi fiscali, dal Mar Caraibico alle Isole Bretoni, al Lussemburgo, alle Samoa. Nella sola isola di Man, che non fa parte del Regno Unito e tuttavia è una dipendenza inglese, operano 42.000 società finanziarie, la cui attività consiste nel mescolare in modo praticamente inestricabile il denaro sporco a denaro proveniente da attività finanziarie regolari. La campagna moralizzatrice anti-russa non cambierà questo stato di cose, al quale l'establishment internazionale è legato.

È servita, però, a bloccare l'erogazione, prevista per settembre, della rata di 4,5 miliardi di dollari del finanziamento del Fondo Monetario. Il blocco, sostenuto dal Sottosegretario al Tesoro americano Larry Summers e praticamente avvallato dai «7», è stato mimetizzato con la imposizione di controlli sui singoli utilizzi, controlli che, se fossero praticamente realizzabili, costituirebbero un caso senza precedenti nella attività del Fondo, equivalendo ad una messa sotto tutela del paese che si intende finanziare. Infatti, udito il verdetto, i russi se ne sono andati senza fiatare. In realtà il blocco è solo apparente perché il versamento del Fondo esce da un conto e rientra nell'altro in quanto serve a ripagare debiti pregressi. Vi è una rumorosa battaglia mediatica, ma vi sono anche i limiti oltre i quali la guerra fredda non può andare. I paesi prestatori, fra i quali l'Italia, hanno fatto mostra di togliere l'ossigeno alla Russia, senza commuoversi alle stragi, probabilmente cecene, che insanguinavano Mosca, e al tempo stesso chiudendo gli occhi sull'azione russa contro la Cecenia, che questa volta efficacemente sta bloccando il tentativo di sobillare il Daghestan. Il Daghestan è la via del petrolio azero verso la Russia, in alternativa alla via del Mar Nero e della Turchia.

 

Cesare Pettinato

Indice