7° ANNIVERSARIO
30 marzo 2000 - 30 marzo 2007
"Rinascita", 22 marzo 2007
Irriverenza eretica antiborghese
La lezione dell'indiscusso erede di Beppe Niccolai
Antonio Carli e "Tabularasa"
Se in Italia, tra i tanti premi importanti che contano, come quello del miglior
calciatore, della migliore velina, del più maleducato, fosse istituito anche
quello della più grande faccia-tosta, il premio non avrebbe assegnatario.
Malgrado gli sforzi d'ogni giuria, non si riuscirebbe ad avere il nome del
vincitore, l'unica certezza si avrebbe però sul genere, o specie, a cui
affidarlo, tutti i giurati indicherebbero senza indugio l'indice sull'homo
politicus italico.
Se fino a qualche tempo fa i più illusi potevano pensare di estromettere
qualcuno dal tipo di premio in questione, gli eventi ultimi hanno disatteso le
speranze di chiunque. Infatti c'è stato un avvicendamento tra i contendenti dal
quale ne è risultata una insperata parità, tutti meritano la maglia del
"faccia-tosta", il che non significa un qualunquistico: tanto sono tutti uguali
(il che è sempre vero come privilegi conseguiti e assensi liberisti),
effettivamente c'è qualcuno, che quando meno te lo aspetti, risulta diventare
peggio dell'altro. In termini di recupero classifica, dei candidati in lizza,
rifondazione, con al seguito neocomunisti e pacifisti, hanno avuto un recupero
sorprendente, dopo il diversivo, la finta, della base americana di Vicenza, le
marce contro la guerra, hanno sbalordito lo stesso Berlusconi, preoccupandolo al
punto da proclamare: nessuno può essere più americano di me.
È una continua corsa alla normalizzazione, di smentite e asserzioni, un
rassicurare la finanza e le ambasciate, un rincorrersi retorico di affermazioni
e rettifiche, di una vastità così grande pari soltanto alla loro faccia tosta.
È per questo proponiamo un editoriale di Antonio Carli, una fotografia senza
sconti del nostro presente.
È un articolo tratto da "Tabularasa" del giugno 1998,
ricordando il settimo anniversario della scomparsa di Antonio Carli, indiscusso
erede di Beppe Niccolai, entrambi voci autentiche di quella politica smoderata
contro le ipocrisie democratiche.
Quando bastava poco per trovarsi eretico, loro, dell'eresia ne fecero uno stile,
un grido senza mezzi termini e senza paura, raccolto, a mio avviso, degnamente
soltanto dal mondo di "Rinascita".
Merito a Ricci, a Niccolai, a Carli e quanti vorranno ancora "delinquere"
nell'irriverenza eretica antiborghese, dell'antiamericanismo,
dell'anticapitalismo, per un sistema d'idee e del proprio essere, da cui far
partire la consapevolezza per il "concepimento di una nuova società".
Con gran nostalgia per quel gran foglio toscano.
.
Lorenzo
Chialastri
confederazioneculta.org
da "Tabularasa" del giugno
1998
«È un'Italia scialba, pallida.
Normale. La cui storia in questi anni, è quella dell'estensione
democratica: una storia di apostasie, di diserzioni, di tradimenti.
Sul rogo, le speranze ed i miti democratici. Gli invocati, gli
aspettati, gli eletti sono divenuti degli oligarchi, dei despoti,
dei traditori. Il governo dei moderati: la sentina di tutte le
corruzioni, la radice di tutti i mali. Che prelude, amici lettori,
alla nascita di un regime della tirannia identificabile in una
rapace consorteria che riuscirà a concentrare tutto in poche mani
gelose. In pieno accordo con la così detta opposizione che, a
ragione dell'ignavia dimostrata nella breve esperienza di governo,
si accontenterà di godere dei residui del banchetto, dilapidando
definitivamente tutti i valori di cui si dichiaravano depositari e
in nome dei quali, carpendo la buonafede di tanti imbecilli,
riuscirono a raggiungere, immeritatamente, i vertici dei burleschi
ordinamenti nomati pomposamente "istituzioni".
Tutto tace. Quiete e silenzio. Assente l'attrito delle idee, ci
stiamo incamminando verso una funesta paralisi morale e politica.
Prevalgono gli internazionalismi, gli umanitari, i fautori della
perpetua felicità. Sventolano, insieme, le bandiere dei moderati e
dei rivoluzionari. Vigono, nella normalità, le transazioni ed i
compromessi, i ricatti e le vendette, la tecnica del gesuitico
patteggiamento che distoglie tutte le fedi, che diluisce le
intransigenze, che mina le barriere. Tutto si concilia.
È positivismo. È connubio, è pragmatismo. Un filosofare che conviene
mirabilmente ad ogni arrivista che vuole farsi accettare
dall'indulgente mondo, grazie alla sua flessibilità, al suo
ciarlare, al cinismo del successo. Le parole spirito, anima, idea,
decadute a simboli barbarici, a detriti di una cultura oltrepassata.
Le idee irrise, cacciate, inseguite, vessate fino all'estenuazione.
Si è installata, trionfalmente, la concezione più borghese e più
piatta, più tetra e più grigia, più normale e più burocratica
dell'esistenza che si potesse immaginare. La superiorità dello
spirito è pazzia, è avventura. La saggezza suprema sta nella pace,
nella consuetudine, nell'usuale, nella tranquillità.
C'è uno stridente contrasto fra quell'Italia ideale fatta di grandi
tradizioni, di grandi figure in cui una piccola minoranza ritrova sé
stessa e le proprie radici, e quell'insieme dei piccoli uomini della
"politica" che governa o che, fingendo, vi si oppone. Un governo
lontano, come cosa distaccata e quasi aliena, rispondente ad
interessi, abitudini e sistemi incomprensibili, se non addirittura
repulsivi ed irritanti.
Ecco, allora, l'inutilità del presente se non riusciamo a credere
nel possibile concepimento di una nuova società. Parole vuote ci
hanno inondato per decenni: volontà popolare, masse, popolo.
Che non sono altro che simboli astratti. Infatti le conquiste
politiche e le riforme sociali non si estraggono dalle masse amorfe,
ma dalla volontà combattiva delle minoranze. Se accettiamo la
democrazia come ordinamento, ne accettiamo anche la sua incarnazione
in uno stato che realizza la schiavitù dell'uomo-consumatore
all'uomo-produttore. Ovvero all'uomo che è cieco strumento del
potere gelosamente conservato dalle mani di una ristretta
consorteria.
Ed ecco, ancora, l'inutilità del presente se non riusciamo a capire
che il potere è, per sé stesso, abuso di autorità. Perché l'autorità
non può appartenere ad un "istituto": essa appartiene agli uomini.
Infatti, l'autorità di un "istituto" è, realmente, autorità degli
uomini che quell'"istituto" reggono. È un convegno governato da
alcuni uomini che intendono affermare il loro predominio. L'autorità
esiste fra gli uomini in un ordine ad un fine sentito da essi come
tale e che danno vita ad una società in cui lo spirito degli
individui che la compongono e, quello spirito, manifestano. Fuori da
questi limiti si può parlare solamente di un semplice fenomeno
fisico: anche in una prigione si forma inevitabilmente una società,
ma la prigione, come tale, non è una società.
E poiché tra i motivi sociali dell'uomo vi sono diversità di genere
e di categoria, e nessuno può ritenersi genere e categoria di
socialità, essa deve essere esplicitata nella pluralità. Ogni
categoria comporta una funzione umana distinta, una gerarchia
propria, una propria forma di autonomia e libertà.
Se proprio si vuole esigere una espressione che indichi una società
ideale nel suo insieme, ciò che avviene per il gruppo di
"Tabularasa", la si chiami pure corporazione-anarchica. In fin dei
conti, il gruppo che si riconosce in "Tabularasa", lo sta da anni
sperimentando. Ma forse ci stiamo un po' rammollendo.
Riprendiamoci tutta la nostra cattiveria, il mondo che ci circonda
merita solo disprezzo».
a.c. |
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