«Non è importante la vita. Importante è cosa si fa della vita» (Beppe Niccolai - Roma, Dicembre 1984)

Anno VI - n° 3 - 31 Maggio 1997

 

spazio libero

Aprile: operazione Albania
obbligatorio non dormire

(1ª parte)

 

Non so se il Carli, nel concedermi uno spazio libero sul giornale, intendesse consentirmi, oltre la memoria di vicende «militari» di deviazione e depistaggio e la osservazione della condizione militare, anche uno spazio di commento politico più legato alla attualità, sul quale maggiore potrebbe divenire il «conflitto» con il sentire dei suoi lettori. Di certo, tuttavia, la nuova vicenda albanese si mostra così «confusa» e sottratta ad una limpida discussione, che forse anche solo suscitando un dibattito forte sulla rivista potremmo tutti contribuire a capirne di più. Ed è ciò che ho comunque avvertito come necessario per questo contributo di pensiero.

 

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La nostra politica sfugge ormai da anni ai criteri di un vero progetto di società e di convivenza. Un progetto per il quale abbia senso raccogliere la sfida per una attività governativa, o per una attività di opposizione. Gli uni impegnati a realizzare gli strumenti economico-sociali capaci di realizzare quel progetto, gli altri impegnati ad opporvisi -sostenendone uno di segno affatto diverso- dimostrandone la inopportunità e la non rispondenza agli scopi dichiarati od ai reali interessi del cittadino. Robe antiche, questi concetti di politica. E come tali lasciate ad ammuffire nelle cantine più recondite della coscienza del nostro popolo, o peggio buttate via al «cenciaio», grati che egli ci liberi di fardelli ingombranti (come può divenire la «Memoria») e vada a spacciarli ai gonzi ed ai collezionisti nei mercatini di quartiere. Che, per questa politica, sono gli illusi, gli utopici, i nostalgici, gli onesti, gli idealisti, i «moralisti». La politica ormai è «un'altra cosa».

 

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E cioè un puro fatto di potere, e come tale non sarà altro che la amministrazione dell'esistente ed il «Governo» delle emergenze. Basterà imbellettare l'uno e le altre con «parole e valori» sottratti a quell'immaginario collettivo -la fantasia- che si mostra comunque indocile ad ogni forma di controllo e normalizzazione, per risorgere in vesti sempre nuove e diverse, in soggetti nuovi e diversi, a testimonianza di una indomabile aspirazione di libertà connaturate ad ogni uomo.

«Solidarietà, cooperazione, missione umanitaria, volontariato, supporto sociale, ingerenza umanitaria» sono le parole nuove che la società civile conia come valori dell'agire vissuto e che il potere le scippa -prima ancora che esse abbiano potuto radicarsi in profondità della società, civile- per farne solo una maschera che nasconda la assoluta mancanza di volontà di agire con conseguenza. Sono le parole ed i valori all'ombra dei quali si sono compiute le peggiori depredazioni dei popoli africani e delle Nazioni in via di sviluppo negli Anni Ottanta. Peggiori di qualsiasi progetto coloniale, perché tese non solo alla conquista ma anche alla spoliazione di coloro che, a parole, avrebbero dovuto essere l'oggetto delle attenzioni caritatevoli del potere.

 

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Ed eccoci ad Aprile, il dolce mese delle nuove primavere, che inaugura con l'Albania la attività di internazionalismo umanitario del nuovo Governo dell'Ulivo. Con le stesse prospettive la missione umanitaria in Cambogia, nel 1980, aveva inaugurato la attività internazionale dei primi Governi a guida laica o socialista.

 

 

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Della missione in Albania, all'atto di scrivere, sappiamo solo che nasce sull'affondamento di una nave carica i civili. E che si va consolidando in un quadro di assoluta incertezza sui fini, sui mezzi, sui tempi, sui reali obiettivi. Situazione che cercheremo di analizzare anche negli aspetti sconcertanti che possono averla determinata. Della missione in Cambogia possiamo invece ricordare tutto, essendo ormai consegnata ai rapporti di missione. Certo, bisognerà rispolverarli, visto che sono stati sommersi sotto un vincolo di «rimozione» che ha dovuto tacitare anche una insubordinazione con ammutinamento di equipaggi di volo impegnati all'estero. Ma se state a sentire forse riusciremo a valutare insieme, con una maggiore ampiezza di analisi, le «cattiverie» che andrò dicendo sulla missione in Albania, proprio partendo da 17 anni prima in Cambogia.

 

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Dunque la Cambogia. Missione umanitaria, al servizio della Croce Rossa Internazionale, per il supporto alle popolazioni civili ed il trasporto a Bangkok di centinaia di rifugiati. Nasce male la operazione (come spesso e purtroppo avviene) quasi tutta appoggiata sulla disponibilità e generosità e la genialità degli uomini alle armi impegnati senza ordini precisi. Essa appare «finalizzata» soprattutto alla promozione, sul mercato economico, del nuovo velivolo italiano sfornato dalla Fiat-Aeritalia: il G-222. C'è una sensazione di improvvisazione e di incapacità a prevederne le difficoltà per saperle fronteggiare con tempestività e risolutezza. Le avarie dei mezzi sono continue, la impreparazione ed incapacità ad affrontare e risolvere questi ed altri problemi logistici-operativi appare via via sempre più incomprensibile. Un dettagliato rapporto del Comandante Panarese, al rientro dalla missione, testimonia di questa incredibile inadeguatezza della Organizzazione Militare al compito assegnato dal livello Governativo. Appare quasi latente la volontà di creare situazioni di condizionamento del Governo, ovvero di «approfittare» della delicatezza della missione ordinata per evidenziare e risolvere carenze strutturali che diversamente non sarebbero state sanate, in condizioni ordinarie, ed «ottenere» così quegli interventi economici-finanziari che si ritenevano necessari e non correttamente compresi dai livelli della funzione politica, parlamentare e governativa. Ricorda molto, quella situazione, ciò che sarebbe successo a natanti italiani impegnati nella missione in Libano e poi ai mezzi militari impegnati nella Guerra del Golfo.

 

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Ma che esistesse un conflitto -o perlomeno un profondo scollamento- tra i livelli politici e quelli militari emerge drammaticamente con la decisione di far rientrare due dei tre equipaggi impegnati, al servizio della Croce Rossa, nella missione di soccorso umanitario alle popolazioni cambogiane. La Croce Rossa minaccia una conferenza stampa per stigmatizzare l'assurdo comportamento delle autorità italiane e per chiedere il ritiro di tutta la delegazione, non solo militare, del nostro Paese. Un «piccolo» Capitano, con i suoi «piccoli uomini» dell'equipaggio, decide per salvaguardare la dignità del nostro Paese di insubordinazioni agli ordini ricevuti. Un piccolo ammutinamento del «Bounty» si consuma a mille miglia da Roma.

 

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Questa volta però non ci sono cacce ai rivoltosi. La Croce Rossa redige, nei suoi due più alti funzionari plenipotenziari, lettere di encomio e di ringraziamento con sottili ma pesantissimi riferimenti alle responsabilità politiche e militari. Non so se questo venga avvertito come un'ancora di salvataggio o come un'umiliante esautorazione dai livelli di comando. Sta di fatto che il pilota ed il suo equipaggio non vengono minimamente perseguiti per le azioni illecite compiute. Ma esse non sono neppure analizzate, dal livello politico, per le responsabilità che le hanno originate, impedendo piuttosto ogni analisi dei pericoli «politico-militari» che esse avevano costruito. Analisi assolutamente necessarie, invece, per prevenire il rinnovarsi di simili evenienze in altre situazioni similari. Scrive amaramente, chiudendo il suo rapporto, il Gap. Panarese: «11.4.80: Volo Il Cairo - Pisa. All'arrivo a Pisa nessun commento da parte del Com.te della Base e nessuna richiesta di informazioni ad un equipaggio che era stato duramente messo alla prova e che era stato costretto a compiere un atto di insubordinazione. Nessun commento e nessuna spiegazione neppure nei giorni seguenti. F.to: Cap. Pii. Panarese Daniele - Pisa, 27 aprile 1980».

 

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Oggi invece nasce la «missione Albania». Molti politici usano l'occasione offerta da un popolo di derubati e disperati, come proscenio per esibire e sostenere i propri interessi di parte. Si parla di dover «riscattare», con la Albania, la vicenda somala ed il suo «disastro» (Casini). Ma quando mai si è aperto o consentito un vero dibattito politico e nel Paese su quella missione? Quando mai sono state valutate le responsabilità, i metodi sia militari che politici, i ruoli ed i compiti assegnati ed assunti? Quando mai è stato detto come e perché siano morti o siano stati trucidati i nostri soldati e quali garanzie e trattamento siano stati riservati alle famiglie dei caduti? Quando mai sono state chiarite le condizioni dell'omicidio-esecuzione di Licausi, uomo dei Servizi e dei misteri di Gladio, o quelle della uccisione-esecuzione di Ilaria Alpi e Milan Hrovatin? Tutti, di converso, invocano una «Pellicano 2», come esemplare di una positiva azione di intervento. Ma quando mai è stata politicamente analizzata la reale produttività di quella missione? E se essa ha avuto questi effetti positivi tanto celebrati, come è stato possibile che essa abbia lasciato il Paese nelle mani di speculatori impuniti e protetti? Non è forse da pensare che i livelli diplomatici e quelli militari siano scesi a forme di «appoggio» e sostentamento di quelle forze politiche oggi al potere, non per un progetto politico-sociale, ma per un progetto di reciproci interessi di parte?

 

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Dovremo dunque accontentarci, come sempre, di affermazioni dogmatiche e misteriose affidate al potere ed usate dal potere per rafforzarne l'alone di imperscrutabilità.

 

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Si arriva ad utilizzare la vicenda Albania per rimpiangere in maniera spudorata (Pisanu, "Il Corriere della Sera", 2 aprile 1997) o dissimulata (Formigoni, TG4, 24 aprile) le formazioni gladiatorie dei nostri «Servizi», che un «falso bisogno» di garantismo avrebbe smantellato rendendo del tutto inefficace una rete informativa che, secondo loro, ci avrebbe garantito invece, in altri periodi, il perfetto controllo e la totale conoscenza di ciò che si muoveva su ogni teatro, dell'Est, come del Nord Africa e del Medio Oriente, fino al lontano Corno d'Africa. Se non si trattasse di squallidi improvvisatori ed incompetenti ci sarebbe da reagire quasi con violenza. Tornare a promuovere quei servizi deviati, devianti ed extra istituzionali (e tuttavia strutturalmente funzionali ai detentori del potere se non alla sicurezza dei cittadini), significa dimenticare quanto la loro «efficienza» sia stata funzionale solo ad impedire la conoscenza e l'accertamento di responsabilità per ciascuna e tutte le stragi impunite di inermi cittadini italiani. Né ha mai contribuito ad evitare che situazioni politico-sociali di quei Paesi degenerassero in cruente lotte civili, in depredazioni e massacri di popoli ridotti improvvisamente alla fame. Dunque, se mai furono funzionali, quei servizi lo furono per la conoscenza finalizzata agli interessi privati di singoli e parti politiche, perché potessero sempre e tempestivamente essere presenti alla spartizione dei bottini e non mai alla progettualità politica. Ma coloro che inseguono il potere hanno bisogno di questi «pretoriani», alla cui forza esibita ed alla cui pervasiva infiltrazione si affidano pur conoscendone la instabile fedeltà che sperano di potersi garantire solo «comprandosela» a suon di denari, di maggior potere, di maggiore impunità, e non si preoccupano affatto della loro efficienza al servizio reale dello Stato e degli interessi dell'unico Sovrano, il Popolo.

 

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Formigoni si spinge più avanti. Prima dileggia il Governo per un ipotizzato fallimento della partecipazione immediata alla UME, a causa di quel differenziale dello 0,2% del rapporto deficit-PIL che non «si sarebbe riusciti ad occultare» ai commissari europei. Operazione, quella di un falso in bilancio, che certo alla sua parte «polare» sarebbe stata più facile ed usuale, viste le abitudini del leader e la pretesa di depenalizzare -quindi rendere non più indagabile né punibile- tale reato. Subito dopo però, parlando di Albania, si augura che un buon comportamento dei soldati italiani impegnati in quella missione possa costituire una ulteriore chance perché il Paese possa concorrere fin da subito al nuovo regime monetario. A me non risulta tuttavia che i trattati di Maastricht prevedano compensazioni di parametri economici con impegni militari. E dunque pare molto probabile che, per Formigoni (ma, ed è peggio, per lo stesso Governo), non sia mutato il criterio cavourriano forgiato con l'occasione della Crimea: «Abbiamo bisogno di un migliaio di morti, per sedere con onore e diritto al tavolo della trattativa».

 

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La Albania nasce sui morti, profughi affondati con la loro misera barca. E continuerà con i morti. Militari italiani questa volta, possibilmente di leva, possibilmente uccisi dal fuoco dei rivoltosi che confermi e consolidi scelte politiche inconfessate ed inconfessabili. Ma comunque uccisi in quello scenario, perché il piombo, in simili situazioni, non ha né nome né indirizzo. Che i profughi siano stati affondati con premeditata volontà è una evidenza scellerata che solo operatori della «informazione» avidi, di dichiarazioni e fatti sensazionali, e poco inclini alla analisi della realtà possono fingere di non saper individuare. Che sia stata una scelta politica combinata sui due fronti politico-governativi è altrettanto evidente e scellerato. È accaduto, in buona sintesi, che un fatto di sangue sia stato perpetrato ed abbia contribuito allo scopo di creare la condizione politica necessaria a mutare la situazione «contingente di teatro». Che poi nessuno voglia riconoscerlo ed ammetterlo è un'altra storia. Una storia che ci quasi rimpiangere quell'Ammiraglio americano che dopo aver «deciso» l'abbattimento del Jumbo iraniano (e non è rilevante se tale decisione fu assunta in proprio o in esecuzione cosciente di un ordine funzionale alla necessità politica, e con la consapevolezza che quell'aspetto e vincolo politico dovesse rimanere non rivelato) ne assunse immediatamente la esclusiva responsabilità. E quel fatto divenne funzionale a determinare la chiusura di una guerra dimenticata dai media ma viva e crudelmente attiva per oltre otto anni.

 

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Perché, per quanto possa essere lontano dalla sensibilità della gente, in realtà ogni azione militare, di qualsiasi Paese che abbia una sua dignità e rivendichi la sua sovranità, è sempre la «continuazione con altri mezzi» della strategia della politica. Quella politica che riposi sul consenso e si offra al giudizio democratico. Ogni azione militare sarebbe dunque soggetta a gravi sanzioni se realizzata indipendentemente o in contrasto con gli interessi che quella strategia politica volesse perseguire. Questo nel circuito «virtuoso», se così possiamo definirlo, tra le funzioni ed i poteri dello Stato. Da noi è diverso. Si subisce la devianza delle istituzioni e di contrasta la democratica espressione del pensiero, legittima sempre anche tra gli uomini delle Forze Annate, anche quando fosse dissenziente, se non si trasforma in illecita forma di contrasto. Esemplare ad esempio il silenzio che sempre si impone a qualsiasi nostro militare per qualsiasi avvenimento di devianza e di reato militare, e la sanzione che sempre accompagna la libera espressione del pensiero di un soldato o di un ammiraglio se non si è adeguato alla valutazione «politicamente richiesta», ad ogni livello, per confortare la versione politica-militare di ogni sconsiderato atto, finanche di strage, oggi quella dei profughi, come ieri quella di Casalecchio o quella di Ustica.
 

Mario Ciancarella

 

1" parte, il seguito nel numero 4

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